Annualmente nel nostro pianeta vengono prodotte oltre trecento milioni di tonnellate di plastica di cui il 90 per cento è ottenuto dal petrolio, e soltanto il 16 per cento è destinato al riciclo. Si tratta di numeri eloquenti, che ci comunicano l'immane quantità di plastica che l'uomo sforna e abbandona con conseguenze devastanti per il nostro globo terracqueo. Inoltre, considerando le stime effettuate dagli studiosi della Sea Education Association, e apparse sulla rinomata rivista 'Science', la situazione può solo volgere al peggio in quanto se non verranno attuate misure in tempi rapidi per potenziare lo smaltimento dei rifiuti nelle zone costiere adottando sistemi di riciclo più efficienti, la quantità di plastica nei nostri mari potrebbe incrementarsi di dieci volte entro l'anno 2025.

Tuttavia, sembra stiano giungendo buone notizie poichè l'annoso rifiuto ha un vero e proprio nemico, ovvero un batterio 'goloso' di Polyethylene terephthalate, cioè il Pet, materiale che rende la plastica resistente e dunque più difficile da smaltire. Grazie all'azione di due enzimi, il batterio in questione può scomporre e divorare totalmente una pellicola sottile di Pet nell'arco di 6 settimane, ad una temperatura pari a trenta gradi centigradi. Il batterio è stato scoperto da un gruppo di studiosi del Kyoto Institute of Technology, che lo hanno denominato Ideonella sakaiensis 201-F6: esso spezzerebbe i legami del PET. Nello specifico, può rompere i legami molecolari del polietilene tereftalato; converte il PET in un'altra sostanza che si chiama MHET e successivamente utilizza un enzima per trasformarla in componenti del PET.

Il batterio è stato scovato osservando più di duecento campioni presenti in un sito di stoccaggio di bottiglie in PET. L'èquipe di Kyoto, sotto la guida del dottor Yoshida, ha identificato gli enzimi fondamentali nel processo di de-composizione (idrolisi) della plastica, descrivendo il meccanismo. Il primo enzima è il PETase, ed è secreto dal batterio quando aderisce alle superfici plastiche; il secondo è il MHET idrolase, il quale causa la rottura delle catene di PET in molecole inoffensive, ossia glicole etilenico e acido tereftalico.

Una volta che verrà corroborata da verifiche, e sarà trovata un’applicazione rapida, la scoperta nipponica potrebbe rivelarsi epocale, pensando alle trecento (e oltre) tonnellate di plastica prodotte annualmente, di cui una buona percentuale finisce nei nostri mari. La plastica ricavata dal PET è una delle più resistenti alla bio-degradazione, e sino a ora soltanto due tipologie di funghi erano considerate capaci di demolire la sostanza.

"È un'impresa assai ardua scomporre il PET altamente cristallizzato. Gli esiti del nostro studio rappresentano solo l'inizio per l'applicazione, adesso serve molto tempo per pensare a un piano relativo alle applicazioni vere e proprie", sostiene l'emerito docente Kenji Miyamoto facente parte della Keio University, il quale ha preso parte allo studio. A proposito di pareri, raccogliamo anche l'opinione del dottor Tracy Mincer, ricercatore del Woods Oceanographic Institution: "Questo è il primo studio rigoroso che dimostra la scomposizione della plastica dal batterio. Fino a poco tempo fa nessun organismo era in grado di decomporlo". Quindi, l'Ideonella sakaiensis 201-F6 pare abbia creato enzimi specifici capaci di scomporre il PET, una risposta della natura all'accumulo di plastica nell'ambiente.

Le potenziali applicazioni di questa scoperta restano tuttavia da stabilire. L'utilizzo più ovvio sarebbe come agente biologico in natura: i batteri sarebbero spruzzati su cumuli di spazzatura galleggiante. Il metodo viene usato per combattere la fuoriuscita di petrolio, ma non tutti convengono sull'efficacia. E scomporre la plastica libererebbe nell'Ambiente sostanzeadditive che potrebbero risultare tossiche. Per concludere, la scoperta potrebbe avere conseguenze per il riciclo della plastica, allo stesso modo per l'analisi sull'evoluzione degli enzimi.