Forse non ci abbiamo mai pensato, ma a meno di non vivere in Sardegna, ognuno di noi ha un deposito "temporaneo" di rifiuti nucleari a meno di 100 km da dove abita. E alcuni nostri connazionali, come chi vive in Piemonte, addirittura più di uno. Sta di fatto che i rifiuti nucleari non sono tutti uguali. A seconda del livello di radioattività espressa e di altri parametri vengono distinti in rifiuti ad alta attività e a bassa attività. E l'Italia dal novembre 1987, anno del referendum che pose fine al nucleare nel nostro paese, deve ancora smaltirne qualcosa come 150 mila metri cubi.

Ecco perché, periodicamente, si sente parlare dall'istituzione del Deposito Nazionale scorie nucleari.

Breve storia delle scorie nucleari in Italia

Dopo il referendum del novembre 1987 venne costituita una società pubblica, la Sogin, deputata a gestire lo stoccaggio e lo smaltimento delle scorie prodotte dalle vecchie centrali nucleari chiuse, come quella Borgo Sabotino, in provincia di Latina o quella di Trino vicino Vercelli. Ma centrali nucleari erano attive anche a Garigliano presso Caserta e a Caorso in quel di Piacenza.

E non c'erano solo le scorie delle centrali nucleari. Perché, mentre gli anni passavano venivano prodotti altri rifiuti radioattivi dalle attività più disparate: dalle diagnostiche ospedaliere della risonanza alla testa dei parafulmini.

O, ancora, dal torio dei vecchi quadranti degli orologi ai rilevatori di fumo delle camere d'albergo. La Sogin si deve occupare di tutte quante queste scorie.

Il Deposito Nazionale delle scorie e i rischi per la salute

Solo dopo 20 anni dal referendum del 1987 l'Italia, dietro sollecitazione dell'Europa, decise di dotarsi di una infrastruttura adeguata per lo stoccaggio e il trattamento delle scorie radioattive, cioè il Deposito Nazionale delle scorie.

Si tratta, in pratica, di un capannone super blindato e altrettanto super protetto dotato di celle multi barriera.

In effetti è un'infrastruttura essenziale per ogni paese industrializzato, ma fino ad oggi, sopratutto a causa della notevole instabilità politica e della delicatezza della tematica non si è ancora individuato il sito adatto per poterlo costruire.

Sarebbe, sicuramente, un modo per creare sviluppo e occupazione, poiché si tratta di un opera da 1 miliardo e 500 milioni di euro. E permetterebbe non solo di rispettare una direttiva europea ancora oggi disattesa e che rischia di far aprire nei confronti dell'Italia l'ennesima procedura d'infrazione; ma, permetterebbe di mandare in pensione tutti i depositi "temporanei" sparsi per il territorio nazionale che non sono altrettanto sicuri.

A giugno 2017 il ministro per lo Sviluppo Economico, Carlo Calenda, illustrando le nuove tappe per individuare il sito adatto per il Deposito Nazionale, ha promesso che entro fine anno sarà resa pubblica la mappa dei siti potenzialmente adatti o CNAPI. E c'è da aspettarsi il solito coro di proteste, come accaduto l'anno scorso quando fu sparsa la voce che il Governo aveva individuato un sito adatto proprio in Sardegna.

Anche se, per individuare il luogo adatto sono stati utilizzati circa 30 criteri differenti, dalla densità della popolazione e distanza dalle città al rischio sismico, e è stata aperta una consultazione pubblica proprio in queste settimane.

L'obiettivo della consultazione, infatti, è quello di rendere comprensibile al grande pubblico la strategia di gestione dei rifiuti radioattivi e del combustibile esaurito. Una volta terminata, le varie comunità potranno inviare le loro candidature per la localizzazione del Deposito Nazionale.

Il Deposito Nazionale dovrà essere attivo entro il 2025, anche perché per completare l'infrastruttura occorreranno almeno 4 anni. Ma in questo modo si eviteranno ulteriori sanzioni da parte dell'Europa e il territorio italiano sarà messo in sicurezza. Unica nota dolente, il costo di quest'opera sarà pagato dagli utenti italiani con una maggiorazione della bolletta elettrica.