A qualcuno forse sembrerà strano, e una ragione in fondo, c'è: il caso Yara è stato dibattuto, masticato e (mal) digerito così a lungo, nei talk show pomeridiani, serali, invernali o estivi, che il pensiero del suo approdo in un'aula di tribunale aveva soltanto sfiorato l'opinione pubblica. Ma i processi, così pare, si fanno nelle aule, alla presenza di avvocati, testimoni, imputati. L'accusato, in questa vicenda che parla di un tranquillo paese della provincia bergamasca e di una ragazza di appena 12 anni brutalmente assassinata, è balzato alle cronache quando le indagini sembravano essersi incagliate nei bassifondi delle ipotesi, sommerse da un mucchio di campioni di DNA senza riscontro.



Gli indizi sulla colpevolezza di Bossetti

All'improvviso ecco spuntare il nome e il cognome di "Ignoto 1" a dare finalmente un'identità a quell'unica traccia ritrovata sui leggins della vittima. Massimo Bossetti, muratore e residente in un paese vicino a quello della giovane Yara, viene arrestato il 16 giugno 2014. Ha da poco le manette intorno ai polsi, quando scopre di non essere figlio di quello che aveva sempre chiamato padre, ma di un autista con il quale la madre Esther aveva avuto una relazione, tale Giuseppe Guerinoni, scomparso nel 1999. Qui comincia un'altra indagine: è necessario costruire un solido castello di prove intorno alla principale ed inconfutabile, frutto della scienza, prova del DNA.

Il Paese si spacca tra scienziati e scettici, un esercito di criminologi e periti investe le televisioni, mentre l'imputato si proclama innocente e la sua vita privata viene presa e rivoltata, i dettagli pruriginosi gettati in pasto al calderone mediatico, a dimostrazione che qualsiasi esistenza, anche quella più anonima e tranquilla, può diventare ottimo nutrimento per il voyeurismo da salotto.

La prova regina, la famosa traccia organica, è stata presto dimenticata, presupposto fondamentale per continuare a rimpinzarsi di angoli oscuri, moventi strampalati, retroscena scandalistici. Pochi e stiracchiati, a dire il vero, gli indizi supplementari: c'è Bossetti, muratore di Mapello, che passa ripetutamente intorno alla palestra dove Yara si allena, il suo telefono che viene agganciato dalle celle vicine alla casa dei Gambirasio.

Ma l'imputato a Brembate di Sopra ha un fratello, non è affatto raro che passi per quella zona, ed inoltre il paese dove abita, Mapello, appunto, è così vicino da rientrare nel segnale coperto dallo stesso ripetitore.

Il processo

È la stessa difesa a sfruttare l'elemento mediatico, schierando una squadra di esperti non nuovi al grande pubblico. Si attende la decisione della Corte rispetto alla presenza di telecamere in aula, con la famiglia Gambirasio e il pm Letizia Ruggeri contrari, e Bossetti e la difesa che chiedono a gran voce la massima trasparenza, che ogni parola venga registrata, ogni espressione facciale debitamente filmata. Le immagini di certo non mancheranno, data la massiccia presenza di troupes televisive assiepate fuori dal palazzo di Giustizia di Bergamo.

La difesa ha chiesto di sentire 711 persone: criminologi, genetisti, semplici testimoni le cui parole dovrebbero deviare il processo dall'unica pista battuta, quella di Bossetti. L'accusa ha presentato invece una lista di 120 testi, tra cui spicca, eclatante, il nome di Esther Arzuffi, madre dell'imputato, che per oltre un anno ha condotto una strenua battaglia in difesa del figlio, negando la veridicità della prova genetica.