Un anniversario quello del conflitto siriano che sottolinea la tragedia di una popolazione martoriata da sei anni di guerra e che rappresenta la principale vittima del paese. I dati di questa tragedia la dicono lunga sul livello di violenza perpetrato: 500 mila vittime, 12 milioni di sfollati tra interni ed esterni, su una popolazione di 22 milioni di abitanti. Un milione di persone è attualmente sotto assedio, mentre un terzo della popolazione vive in luoghi dove non esiste nessun supporto sanitario. Attualmente il paese è frazionato in sette aree sotto diverso controllo: dal governo di Assad, protetto da Russia, Iran e Hezbollah, all’Isis, dalla costellazione di gruppi islamici, dove prevale Jabhat Fateh al-Sham, all’esercito turco coadiuvato dai miliziani dell’esercito Siriano Libero, tutti contro Assad.

E ancora: dalle forze kurde, in coalizione con arabi e altre etnie, fino agli USA.

Il drammatico bilancio

Sullo sfondo a questa drammatica guerra vi sono i due tavoli negoziali: Ginevra e Astana. Il primo gestito dall’Onu, con il suo emissario Steffan de Mistura, l’altro dalla Russia, che formalmente è riuscito a portare dalla sua parte la Turchia, nell’accettazione di Assad per il dopo guerra. Ma in realtà la Turchia fa gioco a sé poiché interessato a combattere principalmente i kurdi del Rojava, nel nord della Siria, al confine con la Turchia. In ambedue i casi la situazione sembra irrisolvibile poiché la costellazione di sigle anti-Assad esigono la defenestrazione del dittatore siriano, cosa improponibile per la Russia che nel 2015 è scesa in campo per dare manforte al governo di Damasco.

In questo contesto c’è una tregua dichiarata nel dicembre dello scorso anno che non è mai stata rispettata. E che dire delle armi non convenzionate ancora in uso da parte soprattutto del regime di Assad, come denunciato dal rapporto delle Nazioni Unite. Per non parlare dei civili martoriati e usati come scudi umani dall ‘Isis, mentre persino gli ospedali sono stati tra i principali obiettivi da varie parti.

Il modello multietnico kurdo

Alcuni analisti parlano di una futura “somalizzazione” della Siria, cioè un paese che, come la Somalia, avrà un governo ufficiale senza il pieno controllo dell’intero territorio: tradotto significa una sorta di guerra di guerriglia perpetua. In tal senso c’è un pezzo di questo territorio che sembra raccontare un'altra storia rispetto alle dinamiche complessive, parliamo dell’area gestita dalle forze kurde, all’interno della confederazione militare multietnica chiamata SDF, che ultimamente ha avuto il pieno appoggio militare da parte degli Stati Uniti.

Le SDF sono state le uniche a non macchiarsi di crimini di guerra, come sottolinea l’ONU, riuscendo a sconfiggere l’Isis in modo molto efficace, liberando le popolazioni assediate dai jihadisti. E queste sono state buone ragioni per indurre l’amministrazione americana a suggerire l’idea di poter considerare “zone sicure” i territori sotto il loro controllo. A riprova di ciò a Manbij sono stati accolti 15 mila sfollati interni, provenienti da Deir Hafer e al-Khafsah. E’ proprio Manbij la città che la Turchia aveva annunciato di voler togliere alle SDF, per questo supportata dai marines a stelle e strisce. Qui, come negli altri territori del Rojava, si stanno costituendo i comitati civici nel rispetto delle diverse comunità etniche e linguistiche, per una ricostruzione democratica dal basso della comunità.