Asuncion brucia. Da quattro giorni le strade della capitale del paraguay sono attraversate da migliaia di persone giunte da tutto il paese, che stanno mettendo a ferro e fuoco la città. I manifestanti hanno assaltato i palazzi governativi e dato fuoco a parte del Parlamento. Una trentina, per ora, i feriti, tra agenti e manifestanti. Gli innumerevoli scontri che si sono succeduti nella città hanno portato ad un morto - Rodrigo Quintana - di soli 25 anni, giovane leader del Partido Liberal Radical Autentico, ucciso alle spalle da un proiettile di gomma sparato dalla polizia mentre fuggiva.

Ciò si è verificato nella sede del suo stesso partito, durante un’irruzione che sembrerebbe, al momento, immotivata. Le immagini (agghiaccianti) della sua brutale uccisione hanno ovviamente fatto il giro di tutti i giornali e i social network, portando ancora più rabbia e riversandola nelle strade.

L’intero paese è scosso da un’ondata di violenza purtroppo prevedibile e che, secondo molti analisti, era nell’aria da tempo. A scatenare la furia è stato il voto parlamentare di venerdì scorso, in cui la maggioranza (25 senatori su 40) ha deliberato la riforma dell’articolo costituzionale 229 che impediva la rielezione del presidente per il secondo mandato. A un anno dall’elezioni del 2018 l’attuale presidente Horacio Cartes (attualmente indagato per corruzione, più volte accusato di legami coi narcos e finanziamenti illeciti), al potere dal 2013, ha cercato di far passare la riforma costituzionale, mentre già da tempo molte piazze della città erano occupate da manifestanti esasperati dal crescente livello di corruzione nel paese, sia nelle istituzioni governative che nella polizia.

“Se viene la dictadura” è il grido che riecheggia nelle strade di Asuncion. E qui la dittatura è un ricordo recente. La fine del sanguinario regime militare del generale Stroessner (uno dei tanti militari saliti al potere in America latina a partire dagli anni ’70, all’interno dell’Operazione Condor, insieme a gente come Pinochet e Videla) risale al vicino ’89.

Ogni famiglia ha tuttora vivo il ricordo di almeno un parente morto o desaparecido durante il regime militare o la guerra tra il Partido Colorado (attuale sostenitore del presidente Cartes) e quello dei Blancos.

Il presidente della Repubblica si è affrettato a dichiarare che “la democrazia non si difende con la violenza”, ma tali proclami di distensione stridono con la realtà di una politica poliziale violenta e repressiva.

La riforma costituzionale deve ancora essere approvata e un tale clima di incertezza contribuisce a riscaldare gli animi; mentre aumentano gli arresti, spesso indiscriminati. L’ex presidente Lugo - appartenente al Frente Guasu dei Blancos - in un intervento accorato sui social network ha cercato di stemperare la tensione, ma anche accusato direttamente forze di estrema destra delle violenze in centro, fatte – a suo dire – per poter incolpare le forze di sinistra che invocano il cambiamento, e quindi rafforzare il potere dei Colorados sull’opinione pubblica.

I media, ampiamente controllati dal presidente Horacio Cartes – multimiliardario a capo di tutte le principali testate –, stigmatizzano senza freni i violenti e tacciono dei soprusi della polizia.

La situazione è disperata. In un goffo tentativo di ripulire l’immagine pubblica del governo sono stati fatti dimettere forzatamente il capo della polizia Crispulo Sotelo e il ministro degli Interni Tadeo Rojas. Ma un paio di teste fatte cadere non hanno frenato la furia dei manifestanti. Ora si attende la ratifica della riforma costituzionale da parte della Camera dei deputati - che dovrebbe essere una formalità, data la schiacciante maggioranza a favore di Cartes. Si invoca il referendum confermativo che chiuderebbe l’iter legislativo, ma questo non può essere fatto prima di tre mesi. Una tale dilatazione dei tempi risulterebbe incredibilmente folle e deleteria, mentre il sangue scorre per le strade.