Il Tribunale di Zurigo ha condannato un cittadino svizzero per diffamazione. Nel 2015 l'uomo accusato ha apposto un like ad un messaggio divulgato, attraverso Facebook, dispregiativo verso la persona di Erwin Kessler (un noto attivista e presidente dell'associazione contro le fabbriche di animali). L'azione posta in essere dall'imputato è stata ritenuta dalla Corte un affronto all'onore di Kessler. La difesa asserisce invece che qualificare un "mi piace" pari ad un apprezzamento può considerarsi come un attacco alla libertà di espressione. Al verdetto del tribunale cantonale potrà proporsi appello agli organi superiori, ma la sentenza ha già avuto un forte impatto.

Dalla condanna è emerso che un "mi piace" corrisponde a una esplicita approvazione del messaggio condiviso dall'autore post. Nonostante all'epoca dell'accaduto non esistesse alcun altro tipo di reazione ai contenuti su Facebook, eccetto un like, non c'è stata alcuna motivazione valida per assolvere l'imputato. Egli dovrà corrispondere la cifra di 4000 franchi equivalenti a 3700 euro circa.

La severità di giudizio della corte svizzera desta non poche preoccupazioni agli utenti, i quali dovranno limitare il loro istinto a cliccare "mi piace". Infatti nella pratica il pulsante like è frequentemente utilizzato per comunicare vari stati d'animo, non solo approvazione in senso stretto.

Nuovi pulsanti per reagire ai post

Da febbraio 2016 è stata implementata la gamma di reazioni ai post di Facebook a cui ha lavorato una troupe comprendente anche sociologi. Ma saranno sufficienti le reazioni messe ora a disposizione per non temere capi d'accusa? Nonostante gli sforzi per migliorare la piattaforma social ancora non è possibile esprimere ad esempio stati d'animo come disaccordo o paura.

Social-crime?

Di recente in Italia sono stati sottoposti al vaglio dei giudici delle questioni legate a Facebook che hanno condotto a una attenta riflessione sulle fattispecie di reato possibili su Internet. Nel particolare, in una sentenza della Suprema Corte di Cassazione, si ritiene applicabile l'articolo 595 del codice penale in caso di diffamazione attraverso una piattaforma web.

Con questa sentenza è stato implementato il catalogo dei crimini virtuali che comprende già reati come stalking, sostituzione di persona, violazione della privacy, pornografia, minaccia e truffa. Il rischio di incorrere in sanzioni si espande sempre di più dalla vita reale a quella virtuale.