"Io non mi pento di nulla, mi posso fare anche tremila anni, no trent'anni". Ragiona e parla da "boss" Totò Riina, non scalfito da nulla, neanche dal carcere che già ha fatto e da quello che dovrà fare a vita. Le intercettazioni dei colloqui con la moglie evidenziano il ruolo, mai incrinato, a capo di Cosa Nostra, a dispetto dei suoi 86 anni e delle precarie condizioni di salute. Dichiarazioni 'significative' per il Tribunale del Riesame di Bologna che, proprio nel venticinquesimo anniversario della strage di Via D'Amelio in cui fu ucciso il giudice Paolo Borsellino con i 5 uomini della scorta a due mesi esatti dalla strage di Capaci in cui morì Giovanni Falcone, gli ha negato la scarcerazione.

Era stata chiesta dai suoi legali perché potesse curarsi ai domiciliari. La richiesta aveva suscitato polemiche e reazioni indignate, specialmente da parte dei familiari delle tante vittime di mafia. Riina fu arrestato il 15 gennaio 1993, dopo 23 anni di latitanza. Ha a suo carico 17 ergastoli come mandante di 500 omicidi.

Le intercettazioni in carcere

In un colloquio videoregistrato avvenuto lo scorso 27 febbraio in carcere, Totò Riina si rivolge alla moglie, Antonietta Bagarella, ribadendo il suo status di capomafia come a voler mandare un chiaro messaggio. Le dice che non si piega né si piegherà mai, e che di anni di galera ne può fare non 30 ma 3 mila. Rivendica, poi, la sua "integrità" di uomo d'onore che rigetta anche un'ipotesi di collaborazione con lo Stato.

Vuole che la sua figura non sia "macchiata" né incrinata: "Sono Salvatore Riina e resterò nella storia Salvatore Riina". Affronta con la moglie anche il tema del ruolo dei pentiti. Moglie e marito affermano che sono pagati per dire le falsità che dicono: "Più se ne inventano, più sono pagati". Il riferimento è, innanzitutto, a Giovanni Brusca, che era stato killer al servizio del boss.

Confermato il 41 bis

Frasi eloquenti per i giudici del Tribunale di sorveglianza di Bologna, che evidenziano non solo la capacità di intendere e volere, ma soprattutto il ruolo apicale che Salvatore Riina continua ad avere in Cosa Nostra. Parole pesanti che sono trascritte nell'ordinanza con cui la Sorveglianza ha rigettato la richiesta di differimento pena o, in subordine, di detenzione domiciliare presentata dai legali di Riina, confermando il 41 bis: carcere a vita, sia pure nel reparto ospedaliero riservato ai detenuti del carcere di Parma in cui da tempo si trova il boss.

Nell'ordinanza dei giudici si legge che il detenuto riceve cure tempestive e adeguate, quotidiana assistenza geriatrica secondo la sua volontà e nell'assoluta tutela della sua salute sia fisica che psichica. Una situazione, quindi, che non viola assolutamente il diritto a una morte dignitosa, quando ciò dovesse accadere. Il provvedimento mette così fine alle polemiche che si erano accese e assume un particolare significato. Arriva in coincidenza con l'anniversario della strage di via D'Amelio e del 41 bis, divenuto sinonimo di carcere duro, il regime carcerario a cui sono sottoposti Riina e altri boss mafiosi (esteso ai condannati per terrorismo), applicato per la prima volta proprio poche ore dopo l'attentato del 19 luglio 1992.

Pericolosità del detenuto speciale

Per i giudici la pericolosità sociale di Riina non è venuta meno a dispetto dell'età e delle condizioni di salute. In un passaggio cruciale dell'ordinanza, si legge che la sua lucida determinazione e la storia criminale fanno sì che il pericolo che possa commettere altri gravi delitti, anche dello stesso tipo di quelli per cui è già stato condannato, sia sempre attuale.