Per la prima volta i ricercatori hanno trovato segni "non ambigui" di alzheimer in un animale selvatico. Si spera che questa scoperta possa contribuire a fare andare avanti gli studi sulle cause che portano all'emergere di questo morbo, affinché si riesca a trovare una terapia efficace per combatterlo. Solo pochi mesi fa è stato comunicato che tracce della patologia sono stati rinvenuti nel cervello degli scimpanzé, una circostanza che non si era mai verificata prima d'ora. Tuttavia, le scimmie studiate erano vissute all'interno di zoo, dunque lo studio non ha potuto estendersi alle specie che vivono in natura.

Tra le caratteristiche principali che differenziano l'uomo dagli altri esseri viventi del pianeta, c'è quella di essere in grado di vivere ben oltre i suoi anni legati al periodo riproduttivo. In generale, la fertilità negli uomini e nelle donne tende ad iniziare a spegnersi intorno ai 40 anni ma, nonostante ciò, ci sono individui che possono vivere fino a 110. Questa prerogativa ha fatto da input ai ricercatori per indirizzare la loro attività, chiedendosi se l'insorgere dell'Alzheimer sia legato proprio alla capacità della specie umana di vivere a lungo. Per darsi delle prime risposte, gli scienziati hanno analizzato il cervello dei delfini, una delle poche altre specie che ha un'esistenza che va ben oltre la fase riproduttiva.

Soffermandosi sugli organi cerebrali di animali morti naturalmente, i ricercatori hanno identificato due dei marcatori chiave del morbo di Alzheimer: le placche beta-amiloide e la proteina tau.

I risultati dello studio

Lo studio suggerisce che gli umani e i delfini possono essere più sensibili all'Alzheimer a causa del modo in cui l'insulina agisce su di loro.

La ricerca si è soffermata anche sulla tendenza degli individui a sottoporsi a regimi dietetici estremi, nella speranza di prolungare ulteriormente la propria aspettativa di vita, e da qui è emerso che il ruolo dell'insulina nel controllare i livelli di zuccheri per un tempo prolungato, potrebbe avere degli effetti dannosi.

"Questo ha l'effetto di prolungare la durata della vita oltre gli anni fertili, ma ci lascia anche aperta la strada al diabete e alla malattia di Alzheimer", ha spiegato il professor Lovestone.

Il gruppo di studio ritiene che la scoperta di tracce di Alzheimer nei delfini potrebbe aprire una nuova frontiera sulla ricerca inerente il morbo. Al momento non si sa ancora se i cetacei colpiti dalla malattia possono riportare sintomi uguali a quelli dell'uomo, come perdita di memoria o confusione. Ad ogni modo, potrebbe essere fondamentale mettere a confronto i risultati ottenuti da questa ricerca con quelle precedenti, per avere maggiori probabilità di fare passi in avanti nella lotta all'Alzheimer.