Aprile 2016. L’Espresso, dalla penna di Leo Sisti, svela i retroscena di un’inchiesta nata un anno prima in collaborazione con il network International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ). Una storia da seguire. Il consorzio è una rete internazionale nato nel 1997 con sede a Washington, coinvolge centinaia di giornalisti tra freelance e testate, ed ha l’obiettivo di smascherare atti di corruzione di cui la rappresentanza politica che spesso vi si macchia deve rispondere. La storia presa in carico da Sisti, dall’Espresso e da altri 300 giornalisti nel mondo, fu quella che appunto nel 2016 apparì a chiare lettere nei titoli del settimanale: Panama Papers.

Nel raccontarlo all’opinione pubblica, Sisti non lascia dubbi: “Sarebbe partita un’inchiesta giornalistica planetaria sullo studio legale Mossack e Fonseca (MF) di Panama, il più grande ‘cantiere’ di offshore”. Uno studio legale capace di gestire 215.000 società, trust o fondazioni (secondo i dati pubblicati) sul piano della convenienza legale e fiscale. Nel febbraio 2017 i fondatori Juergen Mossack e Ramon Fonseca vennero poi arrestati a Panama City perché indagati per un caso di tangenti e di riciclaggio di denaro.

Panama Papers e Malta Files

Oltre undici milioni di documenti vennero resi noti dell’inchiesta sui Panama Papers, file che si riferivano ad un arco temporale di trentotto anni. L’Italia, l’Europa, nessun paese sembra fare eccezione rispetto a quei duecento quattro da cui provengono i clienti dello studio.

Uno Stato che rientra a pieno titolo nella lista è Malta, la piccola Repubblica a due passi dalla Sicilia, entrata nell’Unione Europea nel 2004, cinquant’anni dopo aver ottenuto l’indipendenza dall’Inghilterra, giurando di sostenere e diffondere gli alti valori democratici perseguiti da tutti gli stati membri. In teoria. Pochi mesi fa, a maggio, è ancora l’Espresso a pubblicare un esclusivo a quattro penne sui cosiddetti Malta Files, generati dai Panama Papers, che vedrebbero il piccolo Stato trasformato in un intricato e consapevole paradiso fiscale, soprattutto per i suoi affaristi dato che “quasi 8 mila società maltesi sono controllate da azionisti italiani”.

Una delle giornaliste che vi collaborò fu Daphne Caruana Galizia, uccisa lunedì scorso a Bidnija in un’esplosione che ha convolto l’auto su cui era a bordo, una Peugeot 308 presa a noleggio. Le dinamiche, il movente e la mano che ha commesso questo reato sono ancora da stabilire e le autorità maltesi, insieme con il suo Primo Ministro Joseph Muscat che, nonostante fossero “nemici” per le parole “taglienti” di lei sul suo conto, sembrano decisi a fare giustizia, aiutati persino dall’FBI americana giunta appena due giorni dopo sul posto.

Accertare i fatti senza le interferenze e i depistaggi che troppi credono possano avvenire, da parte di un partito laburista del quale Caruana Galizia si sentiva in pericolo. Due settimane prima di morire aveva denunciato alla polizia di aver ricevuto minacce, ma le autorità si sono affrettata a smentirlo.

In merito alla corruzione del suo paese, Caruana Galizia intervistata da una giornalista di Rainews, rispondeva così: “Tutto questo è iniziato nel corso degli ultimi trent’anni ed è venuto fuori da quando Malta è diventato un Paese membro dell’Unione Europea, poi abbiamo cominciato a riguadagnare la reputazione di un Paese pulito ma la corruzione non è stata mai eliminata”. Corruzione di cui parlava e scriveva con ardore nel suo blog Running Commentary, nel quale scrisse anche venticinque minuti prima di morire: “Ci sono criminali ovunque io guardi.

La situazione è disperata”, una frase che i più hanno definito profetica dato che di fatto si è tradotta nell’attentato che ha esaudito i suoi timori.

L’ultima rivelazione lanciata dalla giornalista prendeva nel mirino il governo maltese, il Primo Ministro e tre persone a lui vicine, con il regime azero. Parole amare che in questi giorni hanno spinto il figlio di Caruana Galizia, Matthew, il quale l’aiuto durante le indagini in ICIJ essendo un ingegnere informatico specializzato nel data journalism, a condannare su Facebook lo Stato che Muscat dirige: “Siamo in uno Stato mafioso... Dove vieni fatto a pezzi per il solo fatto di esercitare i tuoi diritti fondamentali e le tue libertà”. Pesanti accuse a cui Muscat risponde placido, calmo, fin troppo comprensivo: “Non voglio in nessun modo dire qualcosa a un figlio che ha trovato la madre a pezzi, uccisa, un delitto macabro.

Penso che io avrei detto anche di peggio”.

Libertà negate, l'Italia non fa eccezione

Grazie a Twitter qualche ora dopo l’attentato tutti sapevano tutto mentre le notizie continuavano a rimbalzare da un server all’altro in cerca di informazioni, tasselli da inserire nel quadro delle libertà violate. Daphne Caruana Galizia era una giornalista investigativa di cinquantatré anni che è stata uccisa nello svolgimento del suo lavoro e questo fatto può portarci a pensare almeno due cose. La prima è che se è stata uccisa per il suo lavoro, era evidentemente considerato un lavoro “sporco”, complicato, ma decisivo, un lavoro giusto che l’aveva portata a scoprire fatti reali e a coinvolgere persone reali, i quali capi di imputazione in una qualunque indagine non si sarebbero potuti ignorare.

La seconda, disarmante, pone l’accento su una questione mai risolta e sempre più attuale, quella che vede la stampa ancora illusa di possedere le libertà, essendo invece troppo spesso oggetto di manipolazione come tristemente confermato dalle cronache quotidiane.

L’Italia, secondo l’ultima classifica mondiale stilata da Reporter Sans Frontières (Rsf), sarebbe al 52esimo (mentre Malta si trova al 47esimo) posto per quanto riguarda la libertà di stampa che, per quanto sia un passo avanti dal precedente 77esimo posto, rimangono ancora invariati i dati sulle "intimidazioni verbali o fisiche, provocazioni e minacce" e sulle "pressioni di gruppi mafiosi e organizzazioni criminali" che danno un’immagine del Bel Paese ben lontana dai pilastri su cui si fondava in principio la nostra costituente.

Eppure c’è sempre qualcuno che resta in disparte, che non si fida di lasciarsi andare alla repressione e alla depressione di una stampa che non è libera e di un articolo 21 della Costituzione che somiglia più spesso a un bell’esempio di letteratura. Questo qualcuno, sappiamo incarnare perfettamente tutte le voci di quei giornalisti che si impegnano quotidianamente, come Daphne Caruana Galizia che di verità sapeva poter morire ma che non si è lasciata sopraffare, lei che Paolo Borrometi, giornalista AGI che vive sotto scorta dal 2014 perché minacciato dalla mafia, ha definito "esempio per chi crede in un giornalismo libero". E’ per lei e per tutti i crimini perpetrati contro i giornalisti che il 23 ottobre prossimo, giornata mondiale promossa dall’ONU per la fine dell’impunità di questi reati, che Elisa Marincola, giornalista e portavoce di Articolo21, ha lanciato sul sito dell’associazione in un articolo dal titolo Malta, campanello d’allarme per l’Europa un appello per non fermarsi ma armarsi di parole e di fiducia per continuare ad indagare sul suo omicidio, “pretendere che le autorità di La Valletta facciano chiarezza fino in fondo su esecutori, mandanti e motivazioni, chiunque risulti coinvolto.

Per questo dobbiamo ritrovarci sotto l’ambasciata di Malta a Roma il prossimo 23 ottobre (…) Questo per noi significa scortamediatica”. Perché se è vero che mettiamo in conto poter morire per la verità, non dobbiamo permettere che sia la verità a farlo.