Donald Trump non ci sorprende. La scelta di uscire dall'accordo internazionale sul nucleare con l'Iran era stata preannunciata sin dai tempi della campagna elettorale. Ha messo in atto ciò che aveva deciso da tempo, nonostante più di un componente del suo staff di governo, tra cui anche il 'falco' James Mattis, predicasse prudenza. Tanto il citato segretario alla difesa quanto il segretario di Stato, Rex Tlllerson, hanno cercato di salvare i classici 'capra e cavoli', sottolineando che l'accordo andava rivisto, ma non rottamato. L'episodio mette in luce, qualora ci fosse bisogno, lo scarso feeling tra il presidente ed alcuni dei suoi collaboratori: nel caso di Tillerson era già emerso in alcuni frangenti della crisi coreana.

Eppure lo stesso Tillerson si era dichiarato ottimista sulla possibilità che il suo capo adottasse una linea più morbida. In proposito, però, c'è del vero in quanto dichiarato dall'Alto Rappresentante dell'Unione Europea per la politica estera, Federica Mogherini: Trump può decidere per il suo Paese, ma l'accordo non è affatto carta straccia. Lo diventa nel momento in cui l'Iran decide di uscirne: Teheran sta valutando di farlo e qui sarà decisivo il lavoro diplomatico del Cremlino. Di fatto, anche senza gli Stati Uniti, l'intesa con l'Iran firmata da Russia, Cina, Regno Unito, Francia e Germania rimane in piedi. Mosca e Pechino, dopo aver 'bacchettato' severamente Trump, hanno assicurato che produrranno il massimo sforzo per la salvaguardia di un trattato che rappresenta un passo avanti per la non proliferazione di armi nucleari nel mondo.

Lo stesso impegno arriva dall'Europa, dove in una nota congiunta la premier britannica Theresa May, il presidente francese Emmanuel Macron e la cancelliera tedesca Angela Merkel hanno confermato la propria intenzione di mantenere in vita l'accordo.

Il vero obiettivo di Washington

Alla luce delle attuali tensioni e dell'impossibilità, al momento, di stabilire un dialogo con la Corea del Nord, può certamente apparire sconsiderato aprire un fronte di crisi anche in Medio Oriente.

Però, a pensarci bene, la decisione di Trump non è affatto un 'capriccio da despota' come potrebbe sembrare a molti suoi denigratori, ma risponde ad una precisa strategia di contrapposizione in un'area geografica tradizionalmente 'calda' ed importante per gli equilibri geopolitici. Gli Stati Uniti sono reduci da un clamoroso smacco politico in Siria, dove non solo è fallito il tentativo 'indiretto' di rovesciare il governo di Bashar al-Assad tradizionalmente vicino a Mosca, ma si è venuto a crerare un asse Russia-Iran-Turchia che deciderà inequivocabilmente il processo di transizione politica di Damasco.

Ad oggi, immaginare una Siria senza Assad o una Siria politicamente lontana da Mosca e Teheran è pura utopia. Tolto di mezzo lo Stato Islamico che, a pensarci bene, era il minimo dei problemi perché fino all'intervento militare della Russia rappresentava più che altro un'ulteriore minaccia per Damasco, ci sono ben pochi ostacoli alla crescita del prestigio politico russo nella regione. Considerata l'ambiguità della Turchia che dialoga con Mosca pur essendo un potente partner NATO e l'impossibilità di creare uno scontro diretto con la Russia per ovvie ragioni, ecco che Washington va a colpire l'unico obiettivo possibile, distruggendo uno dei pochi successi internazionali della precedente amministrazione della Casa Bianca, e fortifica nel contempo l'asse da contrapporre a quello guidato dallo 'zar', Vladimir Putin.

La strana coppia anti-iraniana

Ci sono due governi che hanno manifestato il loro plauso a Donald Trump ed il rispettivo sostegno alla decisione statunitense di uscire dall'accordo sul nucleare con l'Iran. Sono ovviamente quelli di Israele ed Arabia Saudita. Per immaginarli alleati bisogna avere una fantasia perversa: il piccolo, ma potente Stato simbolo del sionismo nel mondo e la monarchia islamica conservatrice, probabilmente il maggiore sponsor dell'Isis e del terrorismo sunnita. Però hanno in comune la vicinanza politica con Washington e la ferrea opposizione alla cosiddetta 'mezzaluna sciita' che ha i suoi punti di forza nell'Iran, nella Siria, nelle storiche milizie libanesi Hezbollah e nelle nuove forze para-militari sorte negli ultimi anni in Afghanistan (Hazara) ed Iraq (Hashd al-Shaabi).

Apertamente, Israele ed Arabia Saudita non sono alleati e non potrebbero esserlo, se consideriamo che Riad non riconosce ufficialmente l'esistenza dello Stato ebraico. Ma visto che esiste una regola non scritta in cui 'il nemico del mio nemico è mio amico', ecco che gli interessi dei due Paesi hanno iniziato a sovrapporsi. Una prova tangibile di questa 'strana coppia' è arrivata lo scorso febbraio durante la Conferenza sulla sicurezza internazionale di Monaco, dove le dichiarazioni di Avigor Lieberman ed Adel al-Jubayr, ministri degli esteri israeiano e saudita, hanno sfiorato qualcosa di simile ad un reciproco corteggiamento. In questo momento, in fin dei conti, la priorità per i due Paesi è quella di porre un freno alla politica antigiudaica ed antisunnita dell'Iran.

In tal senso, le notizie provenienti da Washington sono musica soave per i vertici di Tel Aviv e Riad.

Scenari da guerra fredda

Tra i sostenitori di Trump - esistono anche in Italia stando ai commenti dei soliti 'smartphomani' su varie testate online - viene spesso sottolineata la coerenza del presidente rispetto a quanto sbandierato nella lunga e surreale campagna elettorale per le elezioni americane. In realtà, la politica estera finora adottata dalla Casa Bianca è in netta contraddizione con quando enunciato dallo stesso Trump, nel momento in cui presentava un'America meno impegnata ad interferire nelle questioni riguardanti altre aree geografiche e, soprattutto, un'America i cui interessi non dovevano scontrarsi con quelli del Cremlino.

L'auspicato feeling con Putin è andato rapidamente in archivio alla voce 'fantapolitica'. Nel giro di pochi mesi, gli Stati Uniti hanno dapprima sferrato un 'raid punitivo' sulla Siria con il pretesto di 'vendicare' il presunto bombardamento chimico del governo di Damasco su Khan Sheikhun le cui prove inerenti la precisa responsabilità del presidente Assad non sono mai state fornite. Hanno poi inasprito i rapporti con la Corea del Nord dove non è scoppiata una guerra solo per l'opposizione di Cina e Russia alla soluzione militare contro il regime di Pyongyang. Dulcis in fundo, hanno bruciato in Iran quella che, a tutti gli effetti, è stata una vittoria diplomatica di Barack Obama. Nulla di nuovo rispetto al passato, pertanto, perché Washington ha sempre trovato altre vie per fare la guerra in zone del mondo dove non può scatenarla in campo aperto.

Ciò che è avvenuto nei confronti dell'Iran, ma anche ciò che avviene ormai da mesi nella penisola coreana, sono gli scenari di una nuova guerra fredda già in atto da tempo. In fin dei conti, in Medio Oriente ed in Corea vanno a contrapporsi innanzitutto gli interessi delle tre grandi potenze militari del pianeta, Stati Uniti, Russia e Cina. Con l'attuale stallo in estremo oriente ecco che, dopo la sconfitta politica in Siria, la nuova guerra fredda riparte con estrema forza dal Medio Oriente dove, addirittura, nella tela di Washington viene contemplata un'alleanza 'impossibile' tra arabi ed israeliani. In realtà in quella parte di mondo è tutto possibile, tranne la pace.