Dopo l’ennesimo massacro americano, avvenuto domenica 5 novembre nella chiesa di Sutherland Springs, in Texas, USA, una polemica si è aperta sul video della tragedia, ora detenuto dalla polizia. La First Baptist Church, chiesa battista del paese a 60km da San Antonio, abitualmente registrava e postava online le funzioni. Quindi, le telecamere della chiesa hanno registrato tutto: Devin Kelley, ex militare americano, congedato con disonore nel 2014, entra e spara sistematicamente con un fucile semi automatico. Uccide così 26 persone, tra cui svariati bambini, e ne ferisce altre 20.

La polemica gira attorno ad una sola questione che ci si pone da quando la tecnologia permette di avere i video di tali mass shootings: il video va reso pubblico?

Il video dell'attacco va condiviso?

Dal massacro della Columbine High School nel 1999, del quale è possibile recuperare online ore di filmati registrati dalle telecamere di sicurezza del liceo, fino agli ultimi, come quello di Las Vegas a ottobre: la domanda rimane sempre se i video vadano condivisi e resi pubblicamente accessibili. Alcuni lo sono già, come video amatoriali caricati poi su una qualunque piattaforma internet; altri, come quello di Sutherland Springs, non sempre lo sono, ma in ogni caso sono sempre soggetti allo stesso dibattito.

Cioè, se sia giusto che siano alla portata di tutti, o se andrebbero censurati.

Cosa vuol dire 'condividere', e quali conseguenze potrebbe avere?

Inizialmente concentriamoci sulla parola condivisione. Per ora il filmato fa parte delle prove per le indagini che sono ancora in corso. Ma alla fine delle investigazioni, potrebbe essere reso pubblico, e condiviso in internet: come riporta il New York Times, dipende dalla legge dello stato in questione.

Le leggi del Texas permettono la diffusione di immagini di scene criminali in alcune circostanze; il video potrebbe quindi essere diffuso su internet o per televisione. Di conseguenza, il target di questa diffusione sarebbe enorme, e sopratutto non sarebbe soggetto a nessun controllo. Il video potrebbe arrivare indiscriminatamente a bambini, adolescenti e adulti.

Non ci sarebbe nessuna tutela di persone che potrebbero essere più sensibili.

Chi è favorevole alla condivisione, sostiene che impedire la visione di e la diffusione di questi video tenga lontano l’orrore dei mass shootings dalla popolazione; e che non vederli sia solo una maniera di schermarsi dalla violenza di queste situazioni, un modo per nascondersi dietro all’illusione che, non vedendole e non sentendone più parlare, queste cose non accadano. La diffusione del video potrebbe appunto mettere sia i politici che la gente comune in condizione di dover affrontare questo problema tipicamente americano.

Al contrario, per chi non vuole che il video vada condiviso, i problemi sono diversi. Intanto, si pensa causerebbe una denigrazione della gravità dell’atto.

Effettivamente, mischiare tali video di violenza vera con tutti quelli che girano su internet, o che vediamo al telegiornale, o alle scene di violenza proposte da film e videogiochi, lo fa entrare nel calderone della violenza giornaliera con cui veniamo bombardati da ogni mezzo di comunicazione. In più, ci si potrebbe chiedere se la condivisione di tali immagini non implichi un’approvazione subliminale delle stesse.

Inoltre, condividere aggraverebbe il trauma delle famiglie delle vittime, che se lo vedrebbero riproposto involontariamente. Sempre il New York Times riporta le parole di Sandy Phillips, madre di una delle vittime dell’attacco nel cinema del 2012. « Sapere che questa cosa vive su internet e su Youtube e che tutti possono vederlo e scaricarlo è terribile.

Non sai mai quando qualcuno lo troverà e te lo inviare per email. »

Ancora, tali immagini nutrirebbero voyeurismi, e alimenterebbero un gusto per la violenza, quella curiosità morbosa che a volte caratterizza chi si trova dalla parte dello spettatore e non della vittima. Effettivamente, il “gusto’’ per la violenza si è espresso in vari periodi storici in modi diversi: per esempio, sia combattimenti al Colosseo nell’antica Roma che le decapitazioni durante il Terrore francese attiravano le folle. Ma erano fenomeni che si limitavano all’istante. La problematica del video risiede nel fatto che eternalizza la scena; e che una volta su internet, cancellarlo sarà praticamente impossibile. Infine, si potrebbe inoltre correre il rischio che provochi sentimenti di emulazione, piuttosto che funzionare da deterrente; e potrebbe inoltre miniare l’integrità delle investigazioni, in quanto i testimoni potrebbero venire influenzati dal video in questione e cambiare la loro versione.

L’umanità come mezzo e la morale kantiana

Se ci poniamo da un punto di vista morale, la questione ricade sul fatto che nel video assistiamo alla morte di 26 persone. Pubblicarlo quindi per sensibilizzare un’ipotetica massa di spettatori attoniti, ricadrebbe nella strumentalizzazione di questo accaduto. Nei Fondamenti della Metafisica dei costumi, pubblicato nel 1785 da Emmanuel Kant, il filosofo tedesco cerca di stabilire i criteri dell’azione morale. Conosciamo tutti l’imperativo categorico kantiano, cioè « agisci in modo che la tua azione possa diventare una legge universale », ma quello che in questo caso ci deve fare riflettere è l’idea dell’umanità come fine e non come mezzo che Kant propone nella seconda sezione dell’opera.

L’uomo, dice Kant, « esiste in tanto che fine in sé, e non semplicemente come mezzo ». E qualsiasi azione morale deve appunto porsi l’umanità solo e sempre come fine. In questo caso, possiamo dire che l’umanità sia, in un certo senso, da entrambe le parti: il fine potrebbe essere la sensibilizzazione, il migliorare i sentimenti umani in rapporto a questi eventi; ma il modo attraverso quale l’azione è portata a termine sarebbe un impiego della morte di 26 persone come mezzo.

La percezione della violenza, perché i video violenti diventano virali?

Potremmo inizialmente pensare che sia per soddisfare una curiosità naturale che l'uomo ha come animale razionale. Curiosità che può essere sia positiva che negativa; in questo caso, addirittura morbosa.

L'uomo è curioso, e davanti a eventi che non si può spiegare, per quanto lo ripugnino, è portato a chiedersi perché e a voler capire, voler guardare anche se sa che sarà doloroso o spiacevole.

Altre letture ci portano su due punti di vista diversi. In primo luogo, potremmo definire il nostro rapporto alla violenza che vediamo come una sorta di sublime kantiano portato all'estremo. Davanti a qualcosa che ha una forza terribile, che potrebbe distruggermi, ma che non può materialmente farlo perché sono al sicuro, provo un certo piacere proprio a causa del fatto di essere al sicuro. L'essere solo spettatore della violenza porta una sorta di appagamento. Questo potrebbe spiegare perché assistiamo sopratutto ultimamente a quella che è riconosciuta come un'estetizzazione della violenza (basta pensare ai film di Tarantino).

Una seconda interpretazione, attraverso la lente del filosofo francese Jean-Jaques Rousseau, ci porta al livello dell'identificazione e della pietà (L'Emile, ou De l'éducation, 1762). In questo caso, il rendere virale i video di mass shootings o di eventi simili avrebbe anche delle sfumature positive. In particolare, ci permetterebbe una vera e propria identificazione con gli altri e con il loro dolore, causando il sentimento della pietà. Perché positiva? Per il filosofo francese, l'esperienza dell'identificazione nel dolore degli altri è la prima esperienza concretamente umana che possiamo avere. Riconosciamo gli altri come uguali a noi, come nostri simili, e quindi soffriamo per il loro dolore e ci riconosciamo nella loro sofferenza.

A un livello di pietà e di sensibilizzazione, quindi, la condivisione del video potrebbe non essere solo negativa.

L'assuefazione: mettere tra noi e la violenza un velo, a causa della sua estrema diffusione

Non bisogna dimenticare, però, che come abbiamo notato prima, a furia di essere continuamente bombardati da notizie simili e da scene violente - che siano vere oppure finte - abbiamo sviluppato una sorta di meccanismo di autodifesa, che consiste nell'assuefazione alla violenza. Cosa che Kant ha anticipato, sempre nell'opera citata in precedenza. Un'assuefazione alla violenza non solo è negativa perché potrebbe permettere uno sfruttamento dell'umanità come mezzo, ma anche perché qualcuno di assuefatto alla violenza ha più facilità a fare del male.

Si spera in realtà che la condivisione degli orrori dei mass shootings permetta un avanzamento nel dibattito sulle armi negli Stati Uniti. Vedere tali video potrebbe accelerare la presa di coscienza del fatto che ci sia un problema a proposito.

Ma se non l'hanno fatto i massacri nelle scuole, nel night club di Orlando, o ancora quello di fronte al casinò Mandalay Bay di Las Vegas, la condivisione di un semplice video potrebbe cambiare qualcosa? Non esattamente; anche perché il presidente Donald Trump, invece di prendere atto di questa realtà problematica, si limita a imputarne le cause a delle malattie mentali degli attentatori, come ha riportato un servizio della CNN a proposito.

La domanda iniziale se il video andrebbe condiviso o no, in conclusione, dovrebbe piuttosto evolvere in chi dovrebbe vedere il video.

I famigliari delle vittime, i bambini, gli adolescenti e altri strati "sensibili'' della popolazione non hanno nessun bisogno di vedere il video per comprendre che si tratta di una realtà tragica e problematica. Al contrario ci sono altri membri della popolazione che dovrebbero vedere il video per smettere di sottovalutare la problematica delle armi negli Stati Uniti. Come scriveva Coleridge nella Biographia Literaria del 1817, la sensibilità umana è abbastanza acuta da poter essere sollecitata senza ricorrere a stimolanti crudi o violenti.

"For the human mind is capable of excitement without the application of gross and violent stimulants; and he must have a very faint perception of its beauty and dignity who does not know this, and who does not further know that one being is elevated above another in proportion as he possesses this capability.''