Lo smacco subito dagli Stati Uniti d'America all'ONU è ben più grave di quanto possa sembrare in apparenza, perché rende tangibile un cambiamento degli equilibri geopolitici. La questione affonda le sue radici nella rovinosa sconfitta politica che Washington ha subito in Siria. Gli States hanno perso la propria posizione egemone in Medio Oriente, al contrario sull'intera regione sta prendendo forma l'abile tela che il presidente russo Vladimir Putin ha tessuto pazientemente per mesi. Il voto delle Nazioni Unite che ha bocciato senza mezzi termini il 'golpe' tentato da Donald Trump con il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele, si rispecchia in questo stato di cose.

I primi a rendersene conto, probabilmente, sono proprio gli israeliani che ora vedono sbiadire il prestigio del loro più solido e potente alleato sulla questione palestinese.

Le perplessità espresse dalla stampa israeliana

Abbiamo definito il voto dell'ONU alla stregua di un fallimento politico dell'amministrazione Trump ora certificato dalla comunità internazionale. Non lo vede diversamente Zvi Bar'el, cronista israeliano esperto di politica estera, tra le firme di punta di Haaretz, uno dei maggiori quotidiani di Tel Aviv. Bar'el parla per l'appunto di "fallimento di Trump all'ONU" e rincara la dose quando definisce il voto del Palazzo di Vetro "un regalo fatto all'Iran". Di fatto il governo di Tel Aviv, alla luce della crescente minaccia della cosiddetta 'mezzaluna sciita' in Medio Oriente che ha notevolmente acquisito prestigio dopo i successi militari della Siria di Assad nella sanguinosa guerra civile, avrebbe chiesto agli Stati Uniti di comporre un fronte comune contro Teheran, punta di diamante di questa alleanza tra Paesi islamici a maggioranza sciita.

La decisione di Trump di uscire dall'accordo sul nucleare con l'Iran rientra certamente in quest'ottica, così come la successiva mossa apertamente filo-israeliana di riconoscere Gerusalemme capitale dello Stato ebraico, ma dinanzi alla clamorosa bocciatura della comunità internaziomale relativa a quest'ultimo atto, Israele mostra ora grande preoccupazione.

"Quanto determinato su Gerusalemme - sottolinea Bar'el - renderà molto difficile la nostra richiesta di un fronte comune contro la minaccia iraniana. Gli Stati Uniti stanno cedendo il proprio posto ad altri attori sulla scena del Medio Oriente e questo ci preoccupa non poco".

Le mosse di Putin ed Erdogan

Dare un volto agli attori evocati da Zvi Bar'el è fin troppo facile.

Hanno i connotati di Vladimir Putin e del presidente turco Recep Erdogan, quest'ultimo estremamente abile a saltare di palo in frasca pur di salire sul carro dei vincitori. Per avere la sua fetta di gloria in Medio Oriente, il governo di Ankara ha bevuto un calice molto amaro, 'ingoiando' i successi dell'odiato presidente siriano Bashar al-Assad supportati da Mosca e da Teheran e si è inoltre seduto allo stesso tavolo con l'Iran dopo esserne stato per decenni un nemico giurato. Il merito è della grande abilità diplomatica di Putin che ha compreso l'importanza di portare la Turchia sul suo lato della barricata, nonostante sia da anni un alleato statunitense ed un potente partner NATO. La risoluzione anti-USA votata dall'ONU che, di fatto, ha certificato il non riconoscimento di Gerusalemme capitale d'Israele, è partita proprio dal governo di Ankara che in questo modo ha probabilmente rotto definitivamente la sua partnership con Washington.

Così tanto Putin quanto Erdogan si sono espressi a favore della creazione di uno Stato di Palestina con Gerusalemme Est capitale ed a testimoniarlo c'è anche un comunicato del Cremlino. "I presidenti Putin ed Erdogan - si legge nella nota - hanno confermato la volontà comune di proseguire gli sforzi per giungere ad una soluzione del conflitto israelo-palestinese, seguendo le norme del diritto internazionale per affermare il diritto del popolo palestinese ad uno Stato indipendente".

Lo strano terzetto

Consapevole che le sue mosse hanno il beneplacito della comunità internazionale, il Cremlino ha anche dato spazio ad un ulteriore annuncio altrettanto importante relativo alla questione siriana. Con la tregua tra il governo di Damasco e l'opposizione moderata che regge da un anno e la sconfitta definitiva dell'Isis e delle altre milizie jihadiste, bisogna gettare le basi per una soluzione politica che dia un nuovo volto al martoriato Paese.

Così il 29 e 30 gennaio prossimi in Russia, in quel di Sochi, si incontreranno i rappresentanti di Assad con quelli dei ribelli in un vertice nel corso del quale sarà discusso il futuro della Siria. Il summit è organizzato da Russia, Turchia ed Iran, i tre grandi attori dei colloqui di Astana che, nell'arco di un anno, hanno portato ad importantissime risoluzioni il cui effetto più evidente è stato quello di porre fine ad un conflitto che durava dal 2011. Il cessate il fuoco e le 'safe zone' sono il frutto dei meeting in Kazakistan che sono andati di pari passo con le azioni militari volte a 'bonificare' la Siria dalle sacche di resistenza jiahdiste. Al vertice di Sochi non sono stati invitati né'gli Stato Uniti d'America, né tantomeno l'Arabia Saudita, altro Paese che ha cercato di muovere i fili dietro le quinte della crisi siriana.

Donald l'eremita

L'effetto peggiore dell'amministrazione Trump a livello internazionale è quello di un pericoloso isolamento, un elemento certamente nuovo per Washington. Ciò si evince in particolar modo da quanto accaduto all'ONU, dove tutti i maggiori partner internazionali hanno voltato le spalle alla Casa Bianca. Togliendo i voti scontati dei diretti interessati sulla questione Gerusalemme, quelli di Stati Uniti ed Israele, soltanto altri sette Paesi hanno riconosciuto l'atto di Donald Trump. Partner di 'piccolo taglio' come Honduras, Guatemala, Togo, Nauru, Micronesia, Palau ed Isole Marshall. Le ultime tre nazioni, oltretutto, sono ex componenti del territorio fiduciario statunitense del Pacifico, alcune delle quali erano sotto l'amministrazione americana fino ad un ventennio fa.

I Paesi dell'Unione Europea hanno votato compatti contro gli USA, anche se ci sono da segnalare le astensioni della maggior parte dei Paesi dell'est del vecchio continente che, di fatto, non cambiano il senso della votazione. Tra gli astenuti anche un Paese storicamente vicino a Washington come il Canada, mentre gli hanno votato contro i solidi alleati orientali Giappone e Corea del Sud, con i quali gli Stati Uniti condividono la minaccia nordcoreana. Infine, tra i voti negativi, ci sono da segnalare anche quelli di nove Paesi che normalmente percepiscono ingenti aiuti economici statunitensi come Iraq, Giordania, Afghanistan, Pakistan, Egitto, Nigeria, Etiopia, Kenya e Tanzania. Va citata anche la posizione della Santa Sede e la parole di Papa Francesco durante il messaggio natalizio.

Il pontefice ha auspicato che "si possa giungere ad una soluzione per la coesistenza tra due Stati all'interno dei confini internazionalmente riconosciuti". A conti fatti, è stato un vero tracollo per la Casa Bianca e per il suo pittoresco presidente il cui slogan elettorale di 'America First' si sta sgretolando sotto i colpi dell'abile strategia politica del Cremlino in Medio Oriente. Ma a voler essere sinceri, Putin vince facile contro un omologo americano che sta demolendo la solida credibilità internazionale costruita dal suo Paese negli ultimi settant'anni di Storia.