Una migrante è morta ieri all’ospedale Sant'Anna di Torino dopo aver dato alla luce suo figlio Israel. Affetta da un fibroma, è stata respinta un mese e mezzo fa alla frontiera francese di Bardonecchia dalla Gendarmerie nonostante le sue condizioni: gravidanza al sesto mese, e difficoltà di respirare a causa del fibroma del quale era affetta. La donna, nigeriana, è stata portata all’ospedale Sant'Anna di Torino con suo marito dai medici dell'Onlus Rainbow For Africa, guidati da Paolo Narcisi. Dall’inizio dell’inverno, l’équipe presta soccorso ai migranti che cercano di attraversare il confine.

L'azione della Gendarmerie francese, per quanto ligia la dovere, è indubbiamente condannabile. Ma in un mondo che pare funzionare al contrario, è la guida alpina che una settimana fa ha soccorso una migrante incinta di otto mesi sul passo del Monginevro, a 1900 metri di quota, a rischiare cinque anni di carcere per “traffico di esseri umani’’. Questo nonostante la guida abbia dimostrato una certa umanità e probabilmente salvato la vita di madre e figlio, che è nato poche ore dopo il salvataggio. Non è una Politica di accoglienza indiscriminata che si vuole suggerire, che incoraggia le partenze dei migranti e sopratutto che non sarebbe obiettiva in rapporto alle nostra possibilità reali di accoglienza - ma bisogna ammettere che rifiutare una migrante incinta e malata sia un atto disumano.

Riflessioni sulla morte

Elevandoci per un istante al di sopra delle circostanze in cui la vicenda si è svolta, questa può permetterci una riflessione. L’azione della Gendarmerie francese - o piuttosto la politica migratoria della Francia più in generale, e potremmo estendere l’accusa all’Europa nel suo insieme - denota sì un disinteressamento per la vita, ma anche e soprattuto un disinteressamento per la morte.

Non è solo la questione quasi superficiale del valore diverso che hanno le vite di esseri umani che alla base sarebbero uguali; ma è quella più profonda e patologica del rifiuto della morte che ci caratterizza e che non si risolve in altro che in un rifiuto della vita.

Il problema è più profondamente legato alla morte perché nel caso in cui non si faccia nulla per salvare la vita di un essere umano, forzatamente lo si condanna.

Dimostrare interesse per la vita di qualcuno è indissolubilmente legato a un interesse in caso della sua morte, e ne va così per il disinteresse. Abbandonare una donna incinta su un confine in alta montagna è un dimenticarsi della sua vita e della sua morte, è un occultamento. Negare la realtà, ignorare il dramma che si concluderà in una sola maniera non migliora la vita, come può sembrare visto che ci garantisce la protezione dell'ignoranza; ma la rende disumana. E questo occultamento è alla base del disagio sociale e della sofferenza personale che ci affliggono.

Il disinteresse e il voler dimenticare

Il disinteresse per la morte - degli altri, e nostra - deriva dall’ossessivo attaccamento alla vita - nostra - che dimostriamo ormai in quest’epoca.

Interesse e attaccamento che ci fanno comportare come se fossimo immortali. Dimentichiamo la morte e facciamo finta che il momento non debba mai arrivare. Come scriveva Pierre Chaunu, "Ci è capitata una curiosa avventura: avevamo dimenticato che si deve morire. É ciò che gli storici concluderanno dopo aver esaminato l’insieme della fonti scritte della nostra epoca."

L’attaccamento alla vita ne è sia una causa che una conseguenza: faremmo qualsiasi cosa per sopravvivere, e la morte di qualcuno di caro è un fulmine a ciel sereno e ogni volta, senza eccezioni, una tragedia di proporzioni immani. Non ci capacitiamo, per esempio, di un fallimento della medicina nel trattare una patologia mortale. Elon Musk pensa di inviare presto umani su Marte; eppure sulla Terra continuiamo a morire.

Com’è possibile che nell’era del prodigio tecnologico gli esseri umani muoiano ancora per delle malattie? Il progresso ci illude che ormai la morte sia solo una brutta patologia che prima o poi - molto presto, secondo alcune teorie transumaniste e post-umaniste - riusciremo a sconfiggere, come abbiamo sconfitto la peste e la spagnola.

Pensiamo, erroneamente, che l'evitare la morte come argomento tabù sia un celebrare la vita. Ma ci sbagliamo. Come scriveva Vittorio Messori nel suo libro “Scommessa sulla morte'', la morte è considerata un argomento morboso, nevrotico, che ci fa storcere il naso e che tendiamo ad allontanare, infastiditi. Morire è patologico, e a meno che tu non sia John Lennon o David Bowie, la morte non ti dona nessuna patina traslucida d'immortalità.

Nevrotica negazione della condizione umana

Blaise Pascal, il matematico filosofo francese conosciuto per il suo argomento della scommessa, scriveva già nel Seicento: "Per quanto bella sia stata la commedia in tutto il resto, l'ultimo atto è sempre sanguinoso. Alla fine, con una vanga si getta della terra sulla testa. Ed ecco fatto, per sempre." La lucidità di Pascal è quella che ci manca adesso. Un silenzio così morboso, questa nevrotica negazione che ci caratterizza, scrive sempre Messori, non era mai capitato nel corso della storia. Sono novità introdotte dalle culture contemporanee. Un popolo di pianificatori e organizzatori che non vuole vedere nel futuro che li aspetta l'unico evento certo.

E succede in ogni parte del mondo, nelle “società progredite'' come in quelle che aspettano che la negazione della morte sia esportata anche da loro.

Desideriamo tutti vivere a pieno ogni esperienza, fare tesoro di ogni instante, ma non possiamo farlo finché non accettiamo che la vita non è illimitata, ma ha un termine. Il tacito accordo stipulato tra di noi è quello di assicurarci e fornirci reciprocamente delle distrazioni che non ci facciano pensare all'inevitabile fine alla quale siamo condannati. La letteratura moderna, come notava Chaunu, è devota a quello; il cinema, nemmeno a parlarne. Ma non è che un levarci la passione che dovremmo avere per un periodo di tempo che non è infinito. Le passioni, i sentimenti che proviamo, a lungo termine sbiadiscono: una vita infinta, a pensarci un attimo, pare qualcosa di incolore.

Nazim Hikmet, il poeta turco della rivoluzione sovietica romantica, scriveva in versi: "Se io non brucio / e tu non ardi / se tutti e due non prenderemo fuoco / chi mai dissiperà le tenebre?"

Quello che manca quando accadono fatti come il rifiuto della migrante incinta alla frontiera, è proprio la consapevolezza dell'umanità e della condizione mortale che tutti condividiamo. Al di là dell'etichetta di migrante o di gendarme, o di guida alpina. Ripete un ritornello francese ''Le marionette / fanno fanno fanno / tre piccoli giri / e poi se ne vanno." Dalla nascita non c'è soluzione; e se perdiamo di vista questa condizione, perdiamo di vista la nostra e quella degli altri. Non ci sono giorni in più per nessuno, se non un migliaio in più per i più fortunati. Non c'è motivo quindi, per negare così profondamente l'umanità nostra e quella di chi ci sta attorno, e di chi, sopratutto, ci chiede aiuto.