Checché ne dica la critica il film di Sorrentino, Giovinezza, rimarrà negli annali del Cinema. E troverà il posto principale come massima espressione cinematografica di quella che generalmente viene definita cultura del postmoderno.

Il senso del film

Anche le riflessioni che scaturiscono dai dialoghi dei due vecchi amici, che hanno toccato il successo personale, sono pensieri che attengono a quella cultura del postmoderno, connotata appunto da assenza di una precipua visione del mondo e che crea un tal vuoto, da indurre uno dei due al suicidio.

Si suiciderà, per giudizi trancianti sulla sua attività di regista pronunciati dalla sua attrice preferita, (Jane Fonda), il personaggio interpretato da Harvey Keitel, e il suo amico continuerà a vivere la sua vita tra visite alla moglie e un tuffo nel suo immaginario. Un film difficile nella comprensione, forse più descrittivo che narrativo, una sorta di sequela infinita di scene che si alternano tra il registro dell'ordinario e quello dello straordinario, sullo sfondo di un albergo lussuoso, lo Schatzalp, frequentato perlopiù da celebrità che vanno a curarsi e insieme a rilassarsi. E intanto tra un massaggio e un rilassamento ai bordi della piscina, fa frequentemente la comparsa quella strana figura di massaggiatrice con le orecchie a sventola che danza al suono di musiche spirituali e svolge la sua funzione quotidiana di portare sollievo a corpi di senescenti.

Qual è il senso di questa operazione, cosa vuole trasmetterci il regista?

Tutto rimane senza risposta, forse perchè la vita al dunque è un nonsenso, certamente la scena più bella e più vera è quella della figlia che dialoga col padre e rimprovera il padre di non essersi mai occupato di lei e di aver calpestato tutti in nome della carriera e della fama.

Ma indimenticabili rimangono certe scene, come quelle di Michael Caine che sfila su una passerella in piazza San Marco a Venezia in una sera d'estate con la facciata della basilica che si specchia su acque scure, che si alzano e si abbassano, o il concerto che il direttore d'orchestra improvvisa coi campanacci delle mucche al pascolo, sino all'esecuzione di una canzone composta dal maestro al cospetto della regina Elisabetta d'Inghilterra in persona

La macchina da presa è sapiente e con zummate immediate e spostamenti improvvisi dei campi ferma sullo schermo immagini di una bellezza sconvolgente e dagli echi felliniani.

Piace questo film, nonostante il tema triste e doloroso, sorprende appunto per la maestria della macchina da presa e per la sceneggiatura, ma non scalda il cuore, perchè denuncia sia l'assenza di un senso, che l'anelito verso un punto più alto che non sia il successo personale dei due protagonisti. Un trionfo dell'ego dei due uomini, dove gli affetti, sbiaditi e ammuffiti, sembrano essere i veri perdenti.