Se ci fosse da stilare un elenco dei concerti migliori al Pistoia Blues festival, quello dei Mumford and Sons è senz'altro uno dei più entusiasmanti delle ultime edizioni. C'erano circa ottomila persone ad attenderli il 1° luglio sotto il palco principale di Piazza Duomo, gran parte dei quali giovanissimi, e l'atmosfera nel pomeriggio era quella che lasciava presagire che ci sarebbe stato un grande spettacolo.

Se dici indie-folk europeo si allude direttamente o indirettamente al quartetto di Londra, non se ne scampa. Non occorrono molti giri di parole per spiegare come Marcus e soci abbiano di fatto "canonizzato" uno stile riconoscibile già dai tempi di "Sigh no more" (2009): un folk rock quasi orchestrale, con travolgenti linee vocali, che tanti poi negli anni successivi hanno ripreso e declinato alla loro maniera.

Quello a cui abbiamo assistito con l'ultimo album "Wilder Mind" e con il tour che ne è seguito è una decisa sterzata verso suoni che abbracciano soluzioni elettrificate, con una serie d'inferenze stilistiche che i Mumford hanno fatto salire inconsapevolmente sul loro carro: Arcade Fire, U2, The National, Editors, per fare qualche nome. Mainstream forse direte voi. Ma con una identità ancora forte.

Marcus, Ted, Ben e Winston hanno proposto praticamente due concerti in uno. Le canzoni del nuovo disco sono state eseguite con strumentazione elettrica, mentre i vecchi successi sono stati fedelmente riproposti con contrabbasso e banjio. L'apertura del concerto è affidata a "Snake Eyes", tratto da "Wilder Mind".

Tra le luci basse si solleva la voce avvolgente di Marcus Mumford, costruendo un crescendo che porterà la piazza ad esplodere. Nel momento in cui Ted Dwane prende il contrabbasso, Marcus sorride al pubblico e dice: "Ballate!". A questo punto parte "I Will Wait", e il pubblico salta in sincrono facendo vibrare ogni cosa. Neanche il tempo di riprendersi, e partono le ruspanti gighe di "Babel", ed è ancora danza collettiva.

A rasserenare gli animi - ma neanche tanto - ci penserà per un po' "Below my feet", che però mette in luce tutta la potenza vocale di Marcus.

Si cambia registro con le chitarre elettriche di "Tompkins Square Park" (e niente toglie dalla testa che qui l'adagiarsi sulle tonalità baritonali di Markus ricordi gli Editors più ispirati) e la bellissima "Believe" che si colora di tinte notturne.

Tornano le atmosfere rurali con "Ghosts That We Knew" e ancora di più con l'esecuzione a cappella "Timshel" e "Cold Arms" (definita "canzone very fuckin' tranquilla"), illuminati da soli due fasci di luce.

Prosegue lo show alternando registri vecchi a nuovi, e anche qualche fuori programma, come un ragazzo e una ragazza del pubblico fatti salire sul palco in qualità di traduttori simultanei. Uno dei momenti più belli si trova ormai verso la conclusione del concerto, con "Lover of The Light" che vede il cantante nei panni di batterista. L'altro cavallo di battaglia è "The Cave", piazzato come penultimo pezzo, nella seconda encore, quando già si cominciava a disperare di non sentirlo. La band si congeda infine dal pubblico con "The Wolf", un saluto "elettrificato" che cerca la parentela con i Foo Fighters.

In due ore di live li abbiamo visti destreggiarsi con perizia tra tanti strumenti e, sia come singoli musicisti che come capacità d'interplay, hanno suonato in modo magistrale, lasciando un pubblico appagato. Forse erano soddisfatti pure quelli che forse avevano fatto qualche smorfia sul cambio di rotta di "Wilder Mind". Al Pistoia Blues i rumors da scioglimenti hanno rivelato la loro infondatezza, anzi la band si appresta a conquistare ancora nuovi consensi, rendendo il loro suono ideale per riempire stadi. Usare il termine indie-folk è ormai un anacronismo, perché ci troviamo di fronte a una rock band che sta lanciando una scommessa di crescita che ci sentiamo - almeno per ora - di premiare.