Nella "Giornata della Memoria" il pensiero ricorre a Primo Levi, lo scrittore italiano internato ad Auschwitz nel febbraio 1944 e casualmente scampato ad un destino che lo segnò per sempre. E che raccontò in un memoriale celebre: "Se questo è un uomo" del 1947.

Pensare per sopravvivere

"Il canto di Ulisse" è tra i capitoli più significativi del racconto. L’atto del pensare come un fattore di sopravvivenza, nelle condizioni più disumane che si possano immaginare, è stato, per Levi il cardine dell’essenza.

E' stato l’elevarsi oltre la brutalità bestiale ed insensata, l’afferrare saldamente sé stesso oltre le pene corporali e psicologiche alla ricerca del valore reale dei fatti e degli avvenimenti che lo avevano condotto in un inferno.

Il pensiero risorge, si affaccia sull’abisso per contemplarlo, per comprenderlo.

L'intervista con Roth, appena prima della morte

Significativo è, in questo solco, il brano di un' intervista che Levi rilasciò a Philiph Roth, il famoso scrittore americano, nel 1986:

“… quello che tu dici, e cioè che per me il pensare, l'osservare, è stato un fattore di sopravvivenza, è vero, anche se a mio parere ha prevalso il cieco caso. Ricordo di aver vissuto il mio anno di Auschwitz in una condizione di spirito eccezionalmente viva ...di fatto, non ho mai smesso di registrare il mondo e gli uomini intorno a me... Avevo un desiderio intenso di capire, ero costantemente invaso da una curiosità che ad alcuni è parsa addirittura cinica, quella del naturalista che si trova trasportato in un ambiente mostruoso ma nuovo, mostruosamente nuovo.”

Il capitolo dedicato al "Canto di Ulisse"

Levi come Ulisse, errabondo “com’altrui piacque” non può distogliere la mente dall’essere, dalla sua riscoperta: posso pensare, posso vivere, fino all’ultimo istante, come un uomo.

Ed è questo che gli permette d’intuire la grandiosa immagine del limite invalicabile vissuto come liberazione e scopo. Manca la visione dell’immanenza divina. Troppo semplice accettare il verdetto del Dio misericordioso che dovrebbe albergare tra le immagini dell’umanità in putrefazione. Sarebbe ingenuamente lineare: l’inferno, la Commedia, Dio, la rassegnazione, la forza, la salvezza.

La scomparsa del Dio

La risposta va ricercata in un’altra direzione che non è teologica o filosofica. E’ materiale e spirituale nello stesso tempo perché il pensiero è carne viva e soffio vitale, inscindibili ed inafferrabili ad di sopra dell’olezzo che promana dalle più indegne divise di morte. Prigioniero agli inferi, in quel momento non spera in nulla, non ha Dio accanto a sé.

L'orgoglio della coscienza sconfigge la morte

Ma ha l’orgoglio dell’essere, l’orgoglio della coscienza che è essa stessa salvezza perché incarna lo scopo ultimo dell’uomo: “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. L’uomo pensante di vivida e profonda intelligenza, pur colpito e condotto in ceppi sul sentiero dell’annichilimento, raddrizza la schiena, acuisce lo sguardo e trova l’essenza perduta, oltre le pene, oltre la morte, oltre ogni implorazione al divino: la vita, se è vita vera, deve essere vissuta con tutta la ricchezza intima e poetica dell’uomo.

E’ il buio più nero a sortire la luce

E’ il turpe, il laido, il ripugnante dell’oppressione che dà vita al lirismo della poesia.

L’ultima verità, quella dell’ultimo respiro che se anche ultimo, deve essere pensiero e non agonia raccapricciante di animale ferito a morte, abbarbicato fino all’ultimo istante alla salvezza materiale. No, l’uomo muore pensando. Pensando sé stesso e pensando il mondo.

Se questo è un uomo.

Qui, io vedo, il senso profondo del testo di Levi. Il quale, al commisurato termine del percorso di vita, dopo avere prodotto quanto le capacità d’intellettuale gli hanno concesso, ha tolto il disturbo, suicidandosi nel 1987. Per scelta. Dignitosamente. Non per consunzione.

Leggere Levi è un dovere per la coscienza di ciascuno di noi. Ognuno di noi, se di esseri umani si tratta, glielo deve.