Se volete fare pace con l’incomprensibile leggerezza dell’Arte contemporanea non potete perdere al Chiostro del Bramante fino al 2 luglio la mostra curata da Gianni Mercurio e organizzata da Arthemisia: Jean Michel basquiat, ovvero il talento di diventare in pochi anni Re di New York e di fottersene morendo di overdose. A soli 20 anni l’artista newyorchese antesignano di writer e graffitari passa in un baleno dai muri della subway alle feste nella Factory di Andy Warhol, portandosi dietro l’amarezza di essere nero in un mondo di bianchi (anche oggi non è che abbondino i pittori neri ndr).

Durò fino ai 27, un’età maledetta per i più grandi geni bruciati da un talento troppo grande per questa vita.

New York anni '80 è il nuovo mondo, più simile a un set di Blade Runner che alla cartolina stereotipata cui i film americani volevano far credere. Central Park è un rifugio per barboni, le strade del Village sono invase da tutti i tipi di droghe e dai peggiori ceffi, un giro nella metropolitana di notte equivale a un turno alla roulette russa. Eppure in quegli anni la città sprigionerà una creatività senza pari e senza freni, di cui gode ancora oggi. Sono gli anni della mela simbolo di un peccato originale grazie al quale puoi diventare ciò che vuoi. Jean Michel si firma Samo ed è ricercato da spacciatori creditori, agenti della divisione antidegrado e della narcotici, vive da barbone e gira di notte disegnando cose meravigliose sui muri grigi piombo della giungla metropolitana che è la sua casa.

Scoperto da Warhol che ne diventa padre mentore e forse amante geloso, diventa amico di buco del gotha artistico dell’epoca, ha un demone che gli brucia dentro, lo stesso che rende meravigliose le sue opere innocenti, e le affolla di mostri, e che alla fine lo divorerà in ultimo buco nero troppo grande.

Basquiat dipinge su tutto quello che gli capita per le mani, e che gli passa per la testa, i suoi quadri cercano di fermare una vita che scorre troppo in fretta, altrettanto confusi e indecifrabili.

Tovaglioli pezzi di carta, legno plastica, cemento, anche tela, ma dopo, quando arrivano i soldi. L’innocenza dei colori che riesce a mischiare con una maestria e un equilibrio da professore dell’accademia, lui che non ha mai studiato, è sempre sporcata da macchie, mostri, degli innesti di ruggine e distruzione. Le opere della MugrabI Collection in mostra sono oltre 100, appena arrivate da una simile esposizione al Mudec di Milano, quelle della maturità, se maturità si può dire di un artista morto a 27 anni, chissà che vette avrebbe raggiunto nella vecchiaia se mai ci fosse arrivato.

Opere ingenue e disarmanti, che raccontano il mondo con gli occhi di un bambino cresciuto troppo in fretta. Un’immersione estrema, che lascia senza fiato avvolti nel ripetersi dei messaggi subliminali, risucchiati dagli spazi intimi di una delle più belle sale del mondo il Chiostro del Bramante, luogo non nato per le mostre ma che alle mostre si presta benissimo, in cui risuonano per l’occasione i rumori dei treni della subway e i messaggi di onnipotenza di chi dipingeva quei treni di notte rischiando la vita. I disegni fatti a quattro mani con Andy Warhol occupano una grande sala, ma sono forse i più deludenti, per l’epoca furono un evento unendo i due pittori simbolo della pop art, che allora era tutto: musica, cinema, fotografia (Basquiat fondò un gruppo in cui suonava il basso con l’attore Vincent Gallo, attore in molti documentari dell’epoca e soggetto di tante famose polaroid di Warhol).

I suoi disegni, quelli fatti da solo, i suoi mostri di legno e cartongesso, persino i piatti scarabocchiati, sono la cosa più bella di questa mostra eccezionale. Era già affermato Basquiat quando li dipingeva, era già addolcito dal successo ma mai chino, sempre selvaggio e arrabbiato d una rabbia feroce. Se qualcosa in un quadro bellissimo vi disturberà come un pugno allo stomaco, è il prezzo che Basquiat chiede per la purezza della sua arte, che a lui è costata la vita.