Successo di critica e di pubblico, dopo aver conquistato premi e aver totalizzato buoni risultati ai botteghini non solo giapponesi. La Forma Della Voce, adattamento dell’omonimo manga di Yoshitoki Oima, è arrivato in Italia a cura della Dynit per un evento cinematografico di due giorni – nelle giornate del 24 e 25 ottobre. L’unica pecca dell’adattamento italiano sta tutta qui, perché il film di Naoko Yamada, prodotto dalla Kyoto Animation, non meritava di essere penalizzato dalla distribuzione, non solo per la sua intrinseca bellezza e godibilità ma anche per l’importanza dei temi che affronta e l’intelligenza con cui lo fa.

La Forma Della Voce, che cerca di comprimere in maniera scorrevole i sette volumi del manga originale in due ore molto dense, tocca temi che, pur centrali nella società giapponese, interessano in modo universale bambini, adolescenti e adulti anche del resto del mondo e lo fa partendo da uno spunto niente affatto scontato: il travagliato processo di redenzione di Shoya Ishida, un ragazzo che è stato un bullo nella sua infanzia, e l’altrettanto difficile processo di auto-accettazione di Shoko Nishimiya, una ragazza la cui una ‘colpa’ è essere non udente. La realtà, però, che si rivela con lo svolgersi della trama è che quelli che sembrano non sapere ascoltare sono proprio tutte le cosiddette persone normali che circondano Shoya e Shoko, forse troppo occupate a giudicare e pensare a se stesse per darsi la possibilità di ascoltare anche gli altri.

Soprattutto quelli che più avrebbero bisogno di far sentire la loro voce.

La trama in breve

Shoya Ishida vuole suicidarsi. È per questo che ripaga tutti i suoi debiti alla madre per le sue passate colpe, vende tutti i suoi possessi materiali e poi raggiunge un ponte, contemplando l’idea di gettarsi in acqua e mettere fine alla sua vita.

È solo un ricordo di un non lontano passato a scuoterlo e impedirgli di commettere un gesto irreparabile. Il nastro della memoria si riavvolge all’indietro,mentre Shoya ricorda un tempo, durante l’ultimo anno delle elementari, in cui era felice e aveva molti amici, finché un giorno una nuova alunna si presenta in classe.

Il suo nome è Shoko Nishimiya e ha una particolarità: è sorda dalla nascita.

Per questo usa un quaderno per comunicare con gli altri e porta l’apparecchio acustico. All’inizio tutti i compagni di classe sembrano accettare più o meno di buon grado la sua presenza ma quando, piano piano, viene a galla che le difficoltà della bambina rallentano le attività quotidiane della classe, Shoko comincia a essere isolata e lasciata indietro. Non sono solo le compagne di classe – fra tutte Naoka Ueno e Miki Kawai – a ignorarla o parlarle alle spalle. Anche i professori si curano poco dei suoi problemi e chi prova ad aiutarla, come la compagna di classe Miyoko Sahara, viene isolato allo stesso modo fino a smettere di frequentare la scuola. Shoya Ishida, che ama fare il buffone in compagnia dei suoi amici, comincia allora a prendere di mira Shoko: le ruba e le rompe tutti i suoi apparecchi acustici, scrive cattiverie alla lavagna, la prende in giro imitando la sua voce insicura, tutto sotto lo sguardo compiacente dei compagni di classe, che lo spalleggiano, e dei professori, che lo lasciano fare.

Un giorno Shoya esagera e ferisce Shoko, nel tentativo di strapparle l’apparecchio acustico e quando questa si scusa perché il ragazzino è stato punito e gli chiede di diventare amici, le ruba il quaderno che usa per comunicare e lo butta nell’acqua. Pochi giorni dopo il preside della scuola si presenta in aula: ha ricevuto delle lamentele dalla madre di Shoko e vuole sapere chi sono i colpevoli del bullismo a cui la ragazzina è stata sottoposta per cinque mesi. Il professore responsabile, sempre pronto a chiudere un occhio sulle aggressioni, incolpa il solo Shoya davanti a tutti i suoi compagni, che immediatamente lo lasciano solo, per accusarlo di essere l’unico persecutore della ragazzina.

È a quel punto che Shoya da carnefice diventa vittima anche lui: additato come capro espiatorio delle colpe di tutta la classe, viene abbandonato da tutti i suoi amici, isolato, fatto oggetto degli stessi tormenti che aveva inflitto a Shoko. Peggio ancora, Shoya è costretto a vedere sua madre, che lavora come parrucchiera e fatica a mantenere sia lui sia sua sorella, andare personalmente a scusarsi di fronte alla madre di Shoko e darle tutti i soldi di cui dispone, per ripagarla degli apparecchi acustici che suo figlio ha rotto alla ragazzina nel corso dei mesi.

Ormai solo e sentendo profondamente il peso della sua colpa e del male che ha inflitto alla sua ex-compagna di classe, Shoya accetta di essere trattato come un paria e si rinchiude in se stesso.

Sarà solo il ricordo di Shoko e di ciò che le ha fatto, anni dopo, a fermarlo prima di buttarsi e spingerlo a cercarla, per cercare di riparare, almeno in parte, al male che le ha fatto. Quando la re-incontra, Shoko è ancora una ragazza timida e insicura, per quanto decisamente cresciuta, che scopre con meraviglia come il bullo di una volta sia diventato a sua volta un ragazzo insicuro, che ha persino imparato il linguaggio dei segni e vuole scusarsi con lei, provando a fare del suo meglio per aiutarla a riprendersi.

È da questo punto in poi che Shoko e Shoya, insieme ma non senza difficoltà, cominceranno ad aprirsi al mondo che li circonda, fra l’indifferenza di chi finge di dimenticare di essere stato complice delle bravate di Shoya, la crudeltà di chi, come Ueno, torna dal passato solo per incolpare gli altri dei propri fallimenti, ma anche le mani tese di vecchi e nuovi amici che li aiuteranno a crescere e anche a provare a colmare il vuoto immenso di un isolamento che fa vivere entrambi in un mondo senza suoni, un mondo in cui le voci degli altri arrivano distanti e il senso di vergogna e di disprezzo per se stessi è così forte da cancellare ogni possibilità di cambiare e ritornare a sorridere.

Insieme, però, Shoko e Shoya scopriranno che nonostante il dolore e le cicatrici che ancora si portano addosso, ci sono troppe cose per cui vale la pena continuare a vivere.

L’insostenibile dolore dell’isolamento

Quello che colpisce, dopo due ore molto dense – davvero tanto dense e scorrevoli, nonostante si abbia l’impressione che alcuni passaggi del manga originale siano stati sacrificati sull’altare del minutaggio – è la profondità con cui un film ottimamente animato come La Forma Della Voce racconta temi delicati e molto caldi come quello del bullismo, della disabilità, dell’isolamento sociale. E lo fa con molta più onestà di molti live action, senza l’ipocrisia un po’ buonista – c’è forse solo qualche nota lievemente stonata sul finale – a cui invece una certa filmografia occidentale ci aveva abituati, trasmettendo il messaggio che anche il bullo è una persona e i suoi modi un po’ violenti di relazionarsi al mondo debbano essere accettati con acritica rassegnazione per non abbassarsi a una guerriglia quotidiana, fosse pure fatta solo in nome del rispetto.

La Forma Della Voce lascia da parte tutte queste retoriche per raccontare una redenzione sincera e si avvale della travagliata amicizia di Shoya e Shoko per mostrare allo spettatore anche tutte le crepe e le pecche di una società, come quella giapponese, che sull’altare dell’efficienza sacrifica la necessità di aiutare chi altrimenti da solo resterebbe indietro; una società che lascia gli studenti abbandonati a se stessi e in nome dell’idea che una sola persona debba assumersi sulle proprie spalle una colpa collettiva, crea facili capri espiatori e li isola come appestati. Eppure i meccanismi che questo film mostra non sono sconosciuti neanche al pubblico occidentale. In modo dolcemente spietato, con le sue animazioni pulite, i volti tondi, gli angoli smussati in curve, i colori brillanti e le musiche da incanto, il film di Naoko Yamada mostra agli spettatori che i bulli non sono mai soli.

I bulli possono sopravvivere e continuare ad agire per colpa di tutte le persone indifferenti che li circondano e girano la testa dall’altra parte o li incoraggiano, per non trovarsi forse dalla parte della vittima e anche perché, in un mondo sempre più costruito sull’incomunicabilità e la mancanza di empatia, fa quasi piacere vedere i più deboli essere perseguitati. Non c’è solo rabbia e accusa in questo film, che presenta tutte le marche stilistiche dell’animazione giapponese, un certo gusto per le situazioni potentemente tragiche, per la presenza di tipi umani più simili a folletti che persone vere, per certi luoghi e certe abitudini che si possono ritrovare solo in questo tipo di Cinema.

A fianco a questi momenti più propriamente dedicati all’intrattenimento, resta un film che si occupa prima di tutto di fotografare una situazione crudele, come quella del bullismo e dell’isolamento, mostrando semplicemente i momenti peggiori, il dolore delle vittime, la freddezza degli indifferenti e la cattiveria dei carnefici.

La Forma Della Voce non risparmia nulla allo spettatore, lo costringe a fronteggiare ogni lacrima, ogni urlo, ogni inascoltata richiesta di aiuto, ogni gesto disperato per tentare di mettere a tacere il dolore e lo fa senza spiegare, senza commentare, semplicemente mostrando.

Eppure c’è anche il lato luminoso di questa storia che presenta così tante ombre lunghe. La Forma Della Voce è anche un inno vero, genuino, un po’ ingenuo ma sicuramente verace all’amicizia, ad amare la vita, a desiderare fortemente di voler continuare a esistere pure se non si rientra nella categoria delle cosiddette persone normali, com’è il caso di Shoko. Pure se si sono commessi degli errori gravi, com’è il caso di Shoya, ma a patto di capire e di riparare davvero; a patto di cercare una connessione con gli altri e imparare ad ascoltarli, di insegnare l’amore, amore come rispetto di sé e amore come rispetto delle differenze e dei limiti altrui.

Perché il dato più doloroso e sconcertante di La Forma Della Voce è proprio questo: la fotografia spietata di una sordità sociale che infetta proprio i più normali di noi, lasciando chi ha più bisogno di aiuto ad urlare nel vuoto. La speranza, come per Shoya e Shoko, è trovare chi abbia ancora voglia di tendere una mano, quelle persone che invece dell’indifferenza decidono di offrire comprensione e aiuto. Resta quella, in fondo, l’unica medicina per sconfiggere il bullismo. Tornare a essere davvero umani. Tutti.