Scrivo oggi di un libro che non mi è estraneo. Quel Sotto i riflettori di un occhio selvaggio – Sul cinema di Paolo CavaraPM Edizioni, a cura di Pietro Cavara, 202 pp., €. 18, giunto or ora nelle librerie. Non può essermi estraneo, poiché partecipo pro-quota tra gli autori che l’hanno redatto (assieme a Mario Gerosa, Luca Servini, Giampiero Raganelli, Tania Di Massimantonio e Jan Svábenický), su cortese proposta del curatore-autore, Pietro, che del Paolo è il di lui figlio. Ammesso il grado di coinvolgimento nell’operazione, rimango ai fatti (che in parte conosco per essermene occupato nel mio Gualtiero Jacopetti – Graffi sul mondo, 2014, Il Foglio) che conducono a Cavara, per come sono stati trattati nel corso della pubblicazione.

Paolo Cavara

Paolo Cavara (Bologna 1926 – Roma 1985) è quel regista che, in prima approssimazione, va da Mondo cane (1961) – con Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi – a Fregoli (1982) passando per L’occhio selvaggio (1967) e La tarantola dal ventre nero (1971), suppergiù vent’anni di cinema e televisione a spasso tra i generi cinematografici, spezzati da una morte prematura, cinquantaseienne. Per anni sono bastate le notule biografiche per liquidare il fenomeno Cavara e il suo passaggio nel mondo della settimana arte. Poi, piano piano, è avvenuta la riscoperta: prima i libri di Fabrizio Fogliato (Gli occhi che raccontano il mondo, Il Foglio, 2014) e Alberto Pezzotta (L’occhio selvaggio, Bompiani), poi l’approdo al Festival del Cinema di Roma (2014) dell’edizione restaurata del suo film-manifesto (ancora: L’occhio selvaggio) e oggi, grazie a PM Edizioni, questo agile volume di duecento pagine che guadagna in profondità quanto perde in ampiezza.

Perché Pietro, più di chi l’ha seguito nell’impresa, sa di cosa parla, de visu. Né è la prima volta ad occuparsene. Ma dopo gli scritti pionieristici (mi riferisco al memoir Ricordo di un padre, Cinemasessanta, 2002) e dai toni autobiografici, quasi intimi, quando ancora era l’unico (assieme agli uomini di Nocturno) a voler iniziare un discorso sistematico sul cinema del padre, oggi che i tempi sono maturi, l’autore scopre la sua vocazione critica e – mi pare – una capacità d’analisi rinvigorita (forse coerente alla ritrovata serenità in ordine ai fatti di cui scrivo).

Se il cinema di Cavara è 'eclettico. – come vuole la vulgata – Pietro s’incarica di scandagliarne l’essenza. Lo fa in punta di penna – e la sua sì, è una bella penna – cui si perdona qualche arzigogolo teoretico (viziaccio che, per dirla tutta, me lo fa sentire affine e, comunque, condotto sempre con grande padronanza). Ma prima della teoresi c’è il cinema.

Quello dei Sessanta e Settanta del Novecento; quello di Cavara e di Giancarlo Giannini, Gigi Proietti, Adriano Celentano, Paolo Villaggio e Stefania Sandrelli, solo per citare alcuni dei primi attori che ha diretto: il thriller, il western, la commedia, il documentario, lo sceneggiato televisivo e le mille sfaccettature in cui si è espressa la sua filmografia. E a occuparsene, film dopo film, aneddoto dopo aneddoto, sono i comprimari del progetto, gli autori, grazie anche ai contributi inediti di alcuni protagonisti dell’epoca – Claudio Sorrentino, Detto Mariano, Claudio Fuiano e Maurizio Liverani –, chiamati a rievocare le gesta di un cineasta, cui si celebra nel libro un nuovo inizio critico nella storia del cinema tricolore.

Sul cinema di Paolo Cavara

Tra la critica cinematografica, il diario e lo scavo psicologico, Sotto i riflettori di un occhio selvaggio è un’opera di livello – e finalmente post-jacopettiana, aggiungo – che rimarca, se ce ne fosse ancora bisogno che, prima del cast, i ciak, gli incassi, i successi e i fallimenti di un film, c’è sempre – e meno male – quell’antico attrezzo dell’umanità: l’uomo.