Passano sempre un paio d'anni, ma ritorna ciclicamente lo sguardo di Peppe Lanzetta sul mondo e sulla realtà in cambiamento. Il 30 novembre è uscito il suo ultimo Libro, "L'odio. La banlieue napoletana" (pagg. 208, euro 13, edizione CentoAutori), nel quale in 17 racconti l'autore s'interroga sui cambiamenti che hanno attraversato il suo personalissimo Sud America all'ombra del Vesuvio.

I suoi personaggi - diseredati drogati di sostanze e di realtà - s'agitano per la città partenopea con un piede in quelle palazzine dove il nostro ha ambientato la maggior parte del suo Bronx minore.

Bruxelles martoriata dalla seconda e terza generazione di emigranti musulmani, è una polveriera che porta avanti questa guerra per il niente. Nel Messico napoletano, invece, senza più Gato Barbieri, ed anche se Pino Daniele sarà per sempre, Lanzetta avverte la mancanza di riferimenti che possano fungere da esempio ad una gioventù senza più stringhe di comunicazione con la tradizione di bellezza che Napoli ha partorito o accolto. È proprio l'odio il comune denominatore di questa globalizzazione senza bricioli di speranza, senza più un Brasile da sognare come meta comune e vita sostituita.

Da Napoli parte una riflessione sui cambiamenti in atto nel mondo

Nelle Palazzine di Napoli, lo scontro è con i nuovi venuti che hanno aggiunto mancanza di speranza a certezza di questa mancanza.

Ma in questo bailamme di scontri fisici e mentali, i personaggi del racconto sembrano l'equivalente odierno di quegli "Alunni del sole" che, in mancanza di una luce che riscaldi, hanno ugualmente un briciolo di pensiero che fa comprendere anche le posizioni dei nuovi venuti. Sembra proprio la comprensione per l'altro la vera cifra di questa "Suburra partenopea" che vive di espedienti, spacci, piccola usura e che "si fa" nelle vene aperte di una delocalizzata America Latina.

Lanzetta la descrive con interiezioni tecnologiche, parole composte che danno modo di vedere colori che invece non avrebbero altra cittadinanza che un'operazione di polizia e di ordine pubblico. Non c'è traccia di "Gomorra" nella narrazione dell'autore, e non si sa se questo dato è una critica allo spirito dei tempi - anche televisivo - o se per vocazione e scelta, lo scrittore partenopeo abbia analizzato quelle frange marginali e senza rappresentanza che potrebbero - se ascoltate ed indirizzate - produrre nuove umanità e possibilità. Resta, nella sua narrazione, uno scampolo di poesia sporca, "bukowskiana", che dà senso alla città dei reietti.