Il black humor è un tipo di umorismo in cui non siamo soliti imbatterci, per un motivo piuttosto semplice: esso infatti tratta argomenti o usa espressioni politicamente scorretti e spesso in relazione alla morte, alla malattia o al macabro, per far riflettere o sdrammatizzare. In parole povere, l'umorismo nero parla dei tabù delle nostre società, che, in quanto tali, vengono evitati come la peste nel momento in cui si palesano: quando Ricky Gervais, dissacrante comico inglese, prese in giro in un suo monologo bambini ammalati di cancro, ghiacciò probabilmente tutta la platea, strappando comunque numerose risate, filtrando il tutto attraverso il suo attestato talento.

La locuzione umorismo nero è stata coniata dal teorico del surrealismo André Breton nel 1935 (francese: humour noir), per indicare un sotto-genere della commedia e della satira nel quale l'umorismo nasce dal cinismo e dallo scetticismo. Breton coniò la locuzione per il suo libro Anthologie de l'humour noir, in cui accreditò Jonathan Swift come il creatore dell'umorismo nero. L'antologia riporta scritti di numerosissimi autori: De Sade, Allan Poe, Baudelaire, Rimbaud, Nietzsche, Picasso, Kafka, solo per citarne alcuni. Da ciò si può comprendere come la commedia nera abbia in realtà una dignità letteraria molto più significativa di quanto potremmo aspettarci. Ma perché parlare di questi temi? Se ne può davvero ridere?

Si tratta di volgarità o esiste qualcosa di molto più profondo?

Il riso in Bergson

Nel suo saggio "Il Riso" Henri Bergson analizza il significato e le articolazioni di ciò che viene definito comico. Prima però di definirne i compiti e l'utilità,il filosofo francese esprime un'importante constatazione: lo scatenarsi del riso si caratterizza necessariamente per una insensibilità, quantomeno momentanea.

Non si può ridere di qualcuno, a teatro come nella vita reale, se si empatizza con la sua condizione: vietato compatire, per il suo stesso significato etimologico, "cum patire", soffrire insieme. Si ride per i lapsus imbarazzanti di chi ci circonda, si ride per le gaffe di ogni sorta, per gli errori degli altri, senza cattiveria o malizia ma per un'automatismo tutto (e solo) umano; "Il più grande nemico del riso - afferma Bergson - è l’emozione".

Allora perché dar credito ad un'azione che a prima vista può sembrare così poco corretta? Secondo Bergson il pregio della commedia è quello di denunciare tutte le fissazioni o le goffaggini che ci intrappolano in una vita per cui al contrario servono fluidità, elasticità, agilità, necessarie per districarsi nella società tra leggi e convenzioni. L'adattamento continuo, ciò che agli occhi di Bergson rappresenta l'essere umano, viene posto contro la rigidità e l'automatismo del vivere proprio del comico: Il comico consiste in una "meccanicità placcata sulla vita" che il riso vuole redarguire. Comico non è solo chi inciampa o il maldestro: comico è l'idealista, che filtra il mondo secondo i propri schemi; il vizioso, che altro non vede se non il proprio idolo materiale, che sia lussuria, gola, avidità o gelosia; il professionista, intrappolato nel suo linguaggio ostico e nella sua scala di valori inadatta ad altri ambiti; persino la malattia viene letta come un assenza nel corpo di tensione ed elasticità, e per questo da affrontare, "degna di attenzione", soprattutto in un mondo in cui sembra vietato parlare di essa.

La lotta a dogmi e tabù: Socrate e Freud

Una crociata dunque contro le fissazioni e i dogmatismi: la stessa guerra per cui visse Socrate più di duemila anni prima. In questo consisteva infatti la sua celebre ironia: mostrarsi ignorante in qualsiasi ambito o discussione in modo da costringere sempre l'interlocutore a dar ragione delle proprie idee, conducendolo infine alla coscienza dell'infondatezza di tutto ciò su cui faceva affidamento prima. Il rifiuto del dogma, la fuga dal pensiero di altri che si è tramutato in legge. Simile al concetto di dogma è quello di tabù, di cui il riso si fa beffe: secondo Freud infatti, la buona riuscita di un "motto di spirito" è data dal fatto che il suo contenuto inconscio è sempre di natura sessuale.

La "barzelletta" è un meccanismo linguistico grazie al quale possiamo liberamente esprimere fantasie e pulsioni sessuali, comunicandole all'altro senza apparire volgari e sopratutto toccandolo nella sua sfera emotiva più profonda, scatenandone il riso. Certamente al giorno d'oggi questa opinione necessita di ridimensionamento, ma non si può rigettare il fatto che, come scrive Charles Brenner, psicoanalista statunitense morto nel 2008, "la tecnica della battuta generalmente serve a provocare la liberazione, o lo scarico, di tendenze inconsce, le quali altrimenti non avrebbero avuto il permesso di esprimersi, o che, almeno, non avrebbero potuto esprimersi in maniera così completa.

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Il riso come sferza del reale: Pirandello e Kierkegaard

Si persegue dunque nel riso e nella barzelletta per liberare qualcosa che scava nelle profondità della nostra identità, un malessere interiore che si riflette nella realtà, celandola: Pirandello scrive nel suo saggio "L'umorismo" che quest'ultimo è quel sentimento che ci porta a svelare il mondo, quel sentimento del contrario che smaschera il disordine e la sofferenza che si celano nel reale. L'artista, il commediante, non deve armonizzare i contrasti, ma anzi concentrarsi sulle contraddizioni, sulle scissioni, sugli scontri irrisolti, sguazzare nelle opposizioni tra schieramenti. Denunciare il dolore della spaccatura. Per far questo l'artista necessita di un'estrema libertà d'espressione, di confrontarsi con ogni ambito della vita, essendo l'umorismo la forma d'arte che a suo parere più si avvicina alla mobilità che costituisce il reale e la coscienza dell'uomo.

"L'ironia è l'occhio sicuro che sa cogliere lo storto, l'assurdo, il vano dell'esistenza" diceva infatti Kierkegaard. Per il filosofo danese l'ironia è un sentimento di distacco, esistenziale, che porta ad accorgersi che le cose fatte fino ad ora non hanno più senso; accorgersi che, ad esempio, "il bene supremo dell'amicizia era l'aiutarsi a vicenda negli imbarazzi finanziari, che la saggezza era quello che pensavano i più". "Questo io vidi", scrive Kierkegaard in Aut aut, "e risi". "E' il riso, usato con timore e tremore, la sferza che qui occorre ed è a questo scopo che io vengo utilizzato". Demistificazione della realtà, denuncia del falso, del vuoto.

Il black humor nel web

Ma è sempre positivo quest'umorismo cinico ed estremamente libero?

Non secondo Colamedici, editore e filosofo contemporaneo: egli, apprezzando intensamente il lavoro di Breton ed il divertimento che nasce da quello sguardo disincantato e consapevole che vede un lato comico anche in ciò che è tragico, denuncia ciò che oggi nel web divampa e si fa chiamare a torto black humor. A suo parere infatti spesso in rete dietro a questo termine "si nasconde il bisogno di canalizzare violenza e rabbia, riconoscendosi tra pari: se tutti fanno schifo, allora io faccio un po' meno schifo". Colamedici ritiene che la ridicolizzazione e lo svilimento di ogni cosa o persona, che si protraggono in determinate comunità multimediali, servano per appiattire tutto sullo stesso livello, un appiattimento usato "per soffrire meno, e magari per non soffrire affatto.

E non come Kafka, Bulgakov, Beckett - che facevano sul serio black humor - per soffrire meglio. Per imparare a sopportare il mondo".

Il black humor nasconde tra le sue numerose pieghe una notevole importanza: essa infatti ci aiuta a comprendere il mondo, ad alleggerire il peso di ogni giorno, ad esorcizzare pulsioni, paure e sofferenze che ci accalappiano l'anima. Esso richiede però un piccolo prezzo: almeno una volta, l'umorismo nero, in quanto sferza del reale, colpisce proprio te, ed il dolore è assicurato.