Il 20 novembre 2013 è stato presentato dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo il rapporto annuale dell'indice di sviluppo umano. Lo "Human development index" è una statistica composita delle voci "longevità", "istruzione" e "reddito" creata nel 1990 dall'economista pakistano Mahbub Hul Haq che valuta la qualità della vita nei singoli Paesi del mondo senza focalizzarsi esclusivamente sul mero dato macroeconomico del Pil.

Ebbene, dal rapporto 2013 emergono tre aspetti significativi. Innanzitutto, la sola crescita economica non si traduce automaticamente in miglioramento della qualità della vita senza adeguate politiche redistributive e significativi investimenti in talenti e risorse umane.

L'indagine rileva altresì che nessuno Stato per il quale vi fossero dati disponibili per il 2012 ha ottenuto valori inferiori rispetto al 2000. Infine, spicca un'ascesa del Sud del mondo in termini di prodotto interno lordo e produzione industriale senza precedenti per scala e rapidità.

I dati numerici vanno ovviamente interpretati. Se è vero che i Paesi poveri scalano posizioni è altrettanto inequivocabile che ciò è dovuto a ragioni demografiche e non qualitative; in altre parole, il "Nuovo mondo economico" non crea posti di lavoro tali da assorbire la crescita della popolazione. Il livello medio di istruzione è ancora basso, le classi borghesi inesistenti, l'aspettativa di vita inferiore all'Occidente.

In merito, nessun rimedio concreto è stato proposto.

L'Italia si posiziona al 25esimo posto in una classifica guidata, rispettivamente, da Norvegia, Australia e Stati Uniti. Il rapporto scatta la fotografia di un Belpaese complessivamente debole, irresponsabile, politicamente incapace di una visione e di una leadership di lungo periodo che produca norme e valori condivisi,  con regole e istituzioni che attraggano fiducia e consenso.

Un'Italia che emargina il suo futuro, i suoi ragazzi, che ha un'elevatissima spesa previdenziale - il 16% del Pil, il quadruplo dell'Australia, per dire - e che è costituito da una struttura socio-economica ormai "a clessidra" nella quale la classe media scivola inesorabile verso la povertà. Un Paese fatto di caste, di sistemi, che non fa sistema.

Tutti aspetti risaputi, insomma.

Quello che non si riesce a comprendere è la ragione per cui sono state recitate le orazioni funebri di nazioni che in questa speciale graduatoria occupano posizioni non disonorevoli e si siano, all'opposto, tessute le lodi, tanto per fare due esempi, del Brasile, 85esimo, e della Cina, addirittura 101esima. Il tutto senza tracciar loro la strada verso un futuro davvero migliore. Sono Stati che economicamente crescono, certo, ma non esattamente modelli di libertà e democrazia nei quali un uomo possa realizzare al massimo le sue potenzialità senza sacrificare la libertà. Popoli che producono e "pesano" ma ancora schiavi di forme feudali di gerarchia sociale - si pensi all'India - con norme giuridiche che calpestano i diritti umani dei propri cittadini.

Non si può, quindi, non rimanere perplessi circa l'effettiva utilità di tali statistiche. Se è vero che l'Isu può spiegare lo sviluppo umano molto più di quanto non faccia il Pil, è altrettanto pacifico che rimane una scorciatoia mentale. Determinare la qualità della vita è, davvero, un esercizio molto più complesso di una sintesi numerica, per quanto possano essere assennate le variabili considerate e le procedure di ponderazione selezionate. Ogni essere umano rappresenta ciò che nessun numero potrà mai analizzare appieno.