Nel libro "House of Debt", gli economisti Mian e Sufi offrono un'interpretazione della crisi che non si concentra sul settore bancario, ma sulla riduzione della ricchezza delle famiglie seguita allo scoppio della bolla immobiliare. Allora non è vero che quando le costruzioni vanno tutto va? È vero ma, proprio alla luce della lettura di Mian e Sufi, lo è più che mai, anche se, quando si verificano accelerazioni troppo forti, si rischiano impatti più che proporzionalmente violenti. Proviamo a fare una riflessione sulla realtà italiana, tutta da verificare.

Alla base della tendenza italiana verso la proprietà della casa, anche nel quadro della industrializzazione e conseguente urbanizzazione del '900, ci sono due classici difetti dello stato italiano (per tradizione stato si scrive con la s maiuscola, ma quello italiano non se lo merita): il difetto di un mercato (libero) del servizio abitativo e di un efficace sistema giudiziario. Infatti in Italia, tanto il blocco degli affitti e degli sfratti, con la sua lunga storia, che non comincia soltanto nel dopoguerra e non finisce con la legge dell'equo canone, quanto la incertezza dei proprietari sulla possibilità di rientrare in possesso del bene casa, anche in caso di necessità propria, non hanno mai consentito lo sviluppo di un normale mercato della locazione.

Perciò gli italiani, anche aiutati da una delle tante anomalie del nostro Paese, come la indennità di anzianità prima e il TFR poi, hanno sempre mirato alla proprietà della casa di abitazione e, ignorando le forme di risparmio mobiliari, hanno creduto nella sicurezza di un bene che accresceva il suo valore nel tempo; questo malgrado tutti i costi, spese, tasse che esso comporta.

E, a fronte della mancanza di un mercato delle locazioni, si è avuto uno sviluppo ipertrofico della proprietà delle case. Che è stato sostenuto dalla progressiva riduzione dei tassi sui mutui e dalla fiducia nella continua rivalutazione dei cespiti, da parte degli istituti di credito e dalla fiducia nella immancabile crescita dei redditi, da parte delle famiglie.

Così il mercato affluente ha visto crescere gli operatori e, tra questi, sono aumentati quelli disinvolti e ciò a fatto scendere ai minimi termini la qualità del prodotto. Un prodotto - la casa - che, per la scarsa preparazione degli acquirenti, molto meno difesi dei normali consumatori, è sempre stato valutato più per le sue caratteristiche estrinseche, che per quelle intrinseche. Perciò, come sostengono Mian e Sufi, quando la ruota ha perso velocità, tutto ha cominciato ad andare in crisi: il reddito delle famiglie, il mercato dei fabbricati, il sistema del credito. Allora è parso bene salvare prima le banche, piuttosto che le famiglie; non è detto che sia stato sbagliato ma, forse, non è stata la scelta migliore.

Tuttavia, se la politica volesse affrontare la situazione, che ancora non è del tutto tragica, potrebbe aversi una qualche strategia di uscita efficace. Così dal fallimento di un mercato se ne aprirebbe un altro: un nuovo, vero mercato del servizio abitativo. In Spagna, ad esempio, una legge ha previsto che, se non basta una moratoria del debito, se non basta una rimodulazione del debito tale da lasciare alle famiglie un minimo vitale, sia possibile estinguere il debito cedendo la casa, ma mantenendo la famiglia nella disponibilità dell'abitazione ad un prezzo compatibile con il reddito della famiglia stessa.