A pochi giorni dall’insediamento alla Casa Bianca, il neopresidente Donald Trump ha firmato ben 17 ordini esecutivi, a dimostrazione che le promesse fatte in campagna elettorale saranno mantenute. Primo fra tutti, l’abolizione del trattato commerciale trans-pacifico, meglio noto come TPP.

Benché questa decisione non abbia valenza concreta elevata - l’accordo infatti non era ancora stato ratificato al Senato - il provvedimento segna un cambio di passo decisivo rispetto all’azione dei predecessori. Tra i piani imminenti di Trump c’è anche la rinegoziazione del NAFTA, il trattato di libero scambio con Canada e Messico.

Una variazione di questi accordi potrebbe ridisegnare radicalmente l’entità e la direzione dei flussi commerciali mondiali, con conseguenze sugli equilibri nelle bilance dei pagamenti nazionali.

“Vogliamo riportare l’industria manifatturiera nel nostro Paese […] vogliamo tornare a fare i nostri prodotti, non vogliamo importarli, vogliamo farli qui", così il Presidente aveva anticipato le sue misure in tema di commercio internazionale durante i primi giorni da Presidente.

Gli effetti di una rinegoziazione degli accordi in chiave protezionistica

Se poi queste misure avranno l’effetto sperato è tutto da vedere. L’entrata in vigore del NAFTA nei primi anni ’90 ha aumentato i flussi tra i paesi firmatari in tutte le direzioni.

Canada e Messico figurano tra i primi mercati di sbocco di merci made in USA, rappresentando oltre il 30% di volumi di export tra i mercati di destinazione (18,5 % e 16% rispettivamente, dati aggiornati a Novembre 2016). I dati dimostrano come questi flussi siano aumentati esponenzialmente a partire dalla ratifica del trattato, mostrando un aumento delle esportazioni a stelle e strisce del 470% verso il Messico e del 180% verso il Canada (variazione percentuale dal 1993 al 2015).

Il settore che potrebbe subire il contraccolpo più pesante in risposta a misure protezionistiche all’interno di tale area commerciale è quello automobilistico, così come altri settori della manifattura che hanno creato catene del valore integrate tra i tre paesi come conseguenza dell’accordo. Il venire meno delle condizioni favorevoli di scambio potrebbe portare a costi di produzione più alti nel caso di utilizzo di componenti esteri e meno competitività sui mercati di sbocco rispetto ai produttori asiatici o europei.

Risultato: minori volumi di produzione negli Stati Uniti e relativa perdita di posti di lavoro. Senza contare che la riduzione di importazioni a basso costo andrebbe ad indebolire il potere d’acquisto delle fasce più deboli della popolazione, le stesse fasce che hanno beneficiato dell’abbassamento dei prezzi determinato dal rafforzamento della libera concorrenza.

L’altra faccia della medaglia sarebbe il disincentivo per le imprese americane a de-localizzare i propri siti di produzione dove il costo della manodopera è più basso, o a importare componenti a basso costo dai paesi confinanti. L’obiettivo di aumentare la produzione casalinga si affianca poi all’impegno messo da Trump nel favorire politiche di assunzione di massa da parte dei big employer statunitensi, come dimostra l’incontro con una dozzina di CEO di grandi aziende, da Ford a Dell, per programmare insieme nuove azioni su suolo nazionale.

A ciò si aggiungono interventi di deregulation e sgravio fiscale per le aziende estere che producono i loro beni negli Stati Uniti, come la taiwanese Foxconn, che secondo indiscrezioni è intenzionata ad aprire uno o più stabilimenti. A coronare il tutto, la minaccia di Trump di introdurre una nuova “border tax” sull’import per fermare i flussi in entrata.

Se tale strategia darà i suoi frutti ce lo dirà il tempo, certo è che la nuova politica commerciale americana sta voltando le spalle a secoli di integrazione dei mercati e globalizzazione e sta creando un nuovo assetto destinato a cambiare inesorabilmente gli equilibri globali.