Ormai ci siamo, settembre sta arrivando e questo mese sarà con ogni probabilità quello decisivo per le sorti di milioni di lavoratori che aspettano di andare in pensione. Nella prima metà del mese sono già stati fissati nuovi appuntamenti tra Governo e parti sociali per continuare il lavoro iniziato da tempo, sul tema previdenziale. Dal punto di vista prettamente tecnico, tutto sembra ormai ben definito, ecco perché adesso ci si attende notizie dal punto di vista finanziario. Il giorno giusto è fissato per il 12 settembre quando il Governo presenterà il suo piano, comprese le coperture finanziarie, che poi inserirà nella Legge di Stabilità.

Pochi soldi e pochi interventi

Negli ultimi tempi si è tanto discusso di precoci, usuranti, minime e così via cioè alcuni tra i più importanti temi previdenziali di largo interesse. Dopo i risultati della crescita e del PIL relativi al secondo trimestre dell’anno, risultati negativi come nessuno si aspettava, molte delle idee di riforma delle Pensioni saranno presumibilmente accantonate o procrastinate a data da destinarsi. Sembra infatti che il Governo, nella sua manovra d’autunno da 25 miliardi, destinerà gran parte delle risorse agli interventi sulla crescita, lasciando poco (si parla di 1,5 miliardi), alle pensioni. Di fatto, probabilmente il Governo opererà confermando l’APE e forse le ricongiunzioni gratuite.

Per il resto tutto sarà posticipato, sperando in risultati positivi del PIL per il secondo semestre. L’APE però rischia di diventare un ennesimo problema per molti lavoratori. I sindacati su questa novità previdenziale che costerebbe circa 600 milioni allo Stato, sono scettici perché significherebbe rendere i pensionati indebitati quasi a vita, dovendo restituire alle banche i soldi che l’INPS erogherà sotto forma di pensione anticipata.

I soldi spesi dallo Stato renderebbero solo meno pesante la rata o nella migliore delle ipotesi, la azzererebbero, per i pensionati con pensioni più basse o con problematiche reddituali tali da renderli bisognosi di aiuto.

I vantaggi della riforma secondo Damiano

La partita sulle pensioni, si gioca tutta o quasi sulla flessibilità, perché concederne una a tutti i pensionati senza distinzioni e soprattutto senza grandi penalizzazioni, renderebbe vani altri interventi che oggi sono urgenti, come opzione donna, quota 96 scuola ed esodati.

Il Presidente della Commissione Lavoro della Camera dei Deputati, Cesare Damiano, esponente di spicco del PD, cioè del partito di Governo, ha una sua personale proposta da anni depositata in Parlamento. Tutti gli oppositori dell’APE e delle altre misure in mente all’Esecutivo, sovente contrappongono a queste proprio la proposta Damiano. A dire il vero, analizzando le due soluzioni, quella di Damiano sembra più favorevole ai lavoratori.

Iniziamo dagli anni di anticipo che per Damiano dovrebbero partire dai 62 anni e 7 mesi, cioè con 4 anni di anticipo rispetto ai 66 e 7 che prevede la norma attuale. Per l’APE invece lo start sarebbe posto a 63 anni e 7 mesi, anche se Nannicini, in uno dei suoi ultimi passaggi ha manifestato l’intenzione del Governo di eliminare i 7 mesi relativi all’aspettativa aumentati nel 2013 e nel 2016.

Con l’APE, se si escludono i soggetti bisognosi di tutela, ai quali sarà concesso un aiuto nella restituzione della rata sotto forma di detrazioni fiscali (i parametri di scelta dei soggetti sono ancora misteriosi e le detrazioni fiscali non servono per gli incapienti), il taglio di assegno sarà mediamente tra il 15 ed il 20% dell’assegno stesso. Con la proposta Damiano invece, il taglio massimo sarà dell’8%, il famoso 2% per ogni anno di anticipo, senza distinzione di pensionati.

A favore dell’APE resta solo il montante contributivo fissato a 20 anni rispetto ai 35 di Damiano. Ma è pur sempre vero che secondo la proposta del Presidente, per chi ha lavorato fin da giovanissimo, basterebbero 41 anni di contributi (Quota 41) rispetto ai 42 e 10 mesi previsti dalla Fornero per la pensione di anzianità.