Una sentenza storica, quella che il Consiglio di Stato ha emesso lo scorso 24 luglio, destinata a fare giurisprudenza e a destare prevedibili polemiche anche sul piano politico: il massimo organo di giustizia amministrativa ha infatti deciso che per l'ammissione agli uffici pubblici non è indispensabile il possesso della cittadinanza italiana.

Il caso esaminato dalla sentenza

La vicenda su cui si è pronunciato il Consiglio di Stato riguardava la procedura di selezione pubblica che era stata indetta dal Ministero dei Beni Culturali per il conferimento dell’incarico di direttore del Parco archeologico del Colosseo, alla quale erano stati ammessi anche cittadini non italiani.

Un sindacato aveva fatto ricorso al TAR per questo motivo, e in primo grado aveva ottenuto una pronuncia favorevole, che aveva avuto ampio risalto sui giornali.

Il Ministero aveva però appellato la sentenza, e, a distanza di nemmeno due mesi dalla decisione del TAR, il verdetto è stato ribaltato in secondo grado dal Consiglio di Stato: anche un non italiano può diventare direttore del Parco archeologico di Roma.

Le conseguenze sui concorsi

Non si tratta ovviamente di un'apertura indiscriminata e totale, ma temperata da distinguo ed eccezioni: innanzitutto per entrare a far parte della pubblica amministrazione sarà necessario essere cittadini di uno dei 28 Stati dell'Unione Europea, in secondo luogo, alcuni settori particolarmente delicati rimarranno riservati agli italiani (magistratura, forze armate, forze dell'ordine, tra i principali).

Non dovremo quindi temere la concorrenza di impiegati tunisini, albanesi o moldavi quando partecipiamo a un concorso pubblico, nè ci troveremo dinanzi a giudici olandesi e prefetti spagnoli in tribunali e uffici, o soldati greci e carabinieri austriaci nelle strade.

Tuttavia, passare da una platea potenziale di 50 milioni di concittadini che possono aspirare ad entrare nel settore pubblico ad una dieci volte più grande non è certo una buona notizia per molti italiani, alle prese con una crisi occupazionale che non accenna a diminuire, pur in presenza di flebili segnali di ripresa economica.

Bisogna certo considerare l'ostacolo della lingua, che ben pochi stranieri sono in grado di padroneggiare come un italiano, e la stessa attrattività di un lavoro di sicuro poco appetibile nei Paesi più ricchi, fattori entrambi che ridurranno l'effettiva partecipazione ai nostri concorsi, ma è innegabile che la concorrenza aumenterà.

In particolare, è ragionevole presumere che i cittadini di alcuni tra gli Stati meno abbienti e più a loro agio con l'italiano, come per esempio romeni e sloveni, possano sfruttare la nuova opportunità di lavoro che adesso si è aperta anche nei loro confronti.

Anni fa in Francia si temeva l'arrivo degli idraulici polacchi che avrebbero spazzato via dal mercato i colleghi locali grazie ai prezzi più bassi, paura che si rivelò ingiustificata; rivivremo un'analoga sindrome in salsa italiana, nei confronti stavolta dei ragionieri del catasto romeni?