È quasi finita. La lunga marcia che ha monopolizzato palinsesti, pensieri e pagine social giunge al termine (e se ne sentiva il bisogno). Prima di arrivare fin qui, siamo riusciti a trasformare il dibattito sulla legge fondamentale dello Stato nel solito scontro tra guelfi e ghibellini, in cui gli alfieri del Sì sono stati descritti come servi, più o meno consapevoli, e i fautori del No sono apparsi, agli occhi degli altri, un curioso mix di giovani arrabbiati e professori ottuagenari. Di che ci stupiamo? È l'Italia eterna delle lotte fratricide e delle faide ancestrali.

Ma è anche il segno di tempi incattiviti, in cui il risentimento non trova adeguata rappresentanza e la frustrazione si risolve in un conato di bile: ieri nelle piazze, oggi anche sulla Rete.

Le responsabilità

La responsabilità è in buona parte del Premier, Matteo Renzi, che ha deciso di applicare al Referendum il suo principale capitale politico: l'assenza di una valida alternativa di governo. Personalizzare non è stato un errore, come è stato più volte sostenuto, ma una scelta consapevole (e spregiudicata). Va denunciato, però, il significativo concorso delle opposizioni, che hanno assecondato il presidente del Consiglio, mettendo da parte le questioni di merito per puntare sull'ostilità, tutta italiana, a ogni forma di autorità.

Un calcolo, purtroppo, condivisibile in termini di "ingegneria del consenso". Siamo fatti così.

Quanto alla riforma, che dire? La verità è che non ci stiamo confrontando sul piano dei valori condivisi, che forse non ci sono. Il dibattito non riguarda nemmeno l'efficientamento della macchina pubblica, che sembra il fine e invece si limita a essere un mezzo: lo strumento per acquisire un po' di credito in ambito internazionale.

Chi legge potrà interpretare il termine "credito" nell'accezione di credibilità o in quella bancaria, a seconda delle sensibilità: il risultato non cambia. A questo si riducono le costituzioni, nell'era dell'economia globalizzata e della (purtroppo dissonante) parcellizzazione politica.

Naturalmente, i dubbi relativi alle conseguenze di una bocciatura della riforma non vanno sottovalutati, benché le previsioni apocalittiche appaiano gonfiate da preoccupazioni che, altrove, si sono rivelate infondate.

Vedere Brexit e Trump.

Porsi delle domande sul destino economico del Paese non è un ozio bizantino: è un atto di responsabilità. C'è da chiedersi, però, cos'altro dovremo accettare, in futuro, se ci dimostreremo perennemente esposti a ricatti di questo genere. Dobbiamo farci dettare le regole democratiche dai fondi di investimento? Va bene, ma almeno apriamo un confronto sul tema, abbandonando ogni ipocrisia. Questo è essere una comunità. Questo è essere seri.

Comunque vada

Ad ogni modo, come si dice al casinò: “Les jeux sont fait”. A che servirebbe proseguire? Occorre ribadirlo: il merito non c’entra. Peccato, perché le Costituzioni, come insegnano nelle aule di diritto, "sono le regole che i popoli si danno da sobri per quando saranno ubriachi". Peccato, perché di sobrietà se ne vede già poca.

Non è possibile stabilire come andrà finire, ma una cosa è chiara: comunque vada, abbiamo già perso.