L'Italia si sa, non è un paese per giovani. Nel 2017 la disoccupazione giovanile ha superato il 40%, interessando in modo particolare i ragazzi fra i 15 e i 24 anni, che spesso smettono di studiare ma difficilmente riescono a trovare un impiego.

In questo contesto hanno fatto notizia le parole di un giovane imprenditore veronese, Cristiano Gaifa, propietario della catena di ristoranti fusion Zushi, che ha raccontato di avere serie difficoltà nel trovare giovani interessati a lavorare nei suoi locali. Gaifa ha affermato che tre persone su dieci spesso non si presentano neppure ai colloqui, magari senza nemmeno avvertire, mentre molti ragazzi una volta accettato il Lavoro, racconta, non si fanno più vivi utilizzando scuse tra le più assurde.

Non è difficile capire perché parole di questo tipo facciano tanto scalpore, in un paese dove l'emergenza lavoro è praticamente ogni giorno al centro della discussione politica e delle problematiche sociali. Ma quello che viene da chiedersi di fronte a simili assurdità è: è davvero questa la realtà dei fatti? I giovani sono così sfaticati e ormai abituati ad essere sostenuti economicamente da genitori, che non fanno nemmeno il minimo sforzo per provare a trovare e mantenere un lavoro, oppure questo è solo un lato della medaglia?

Lavoro: un'emergenza a 360 gradi

Senza dubbio esiste una problematica sociale, legata alla formazione culturale e lavorativa dei giovani, spesso cullati dalle proprie famiglie e privi della possibilità o della voglia di fare esperienze importanti al di fuori del loro porto sicuro.

Ma non dimentichiamo che tale problematica non nasce a caso, ma per una reale mancanza di prospettive future che i giovani percepiscono ormai fin dall'inizio delle scuole superiori.

Gia di per sé è contraddittorio, in una società civile contemporanea, che il fatto di offrire contratti e stipendi regolari venga sottolineato come fosse qualcosa di non ordinario.

Come se la regolarità in fondo - nella realtà - fosse un'eccezione alla non-regola, pratica invece dilagante. Questo indica che la problematica sociale del lavoro non può essere messa sulle spalle solo dei giovani, etichettati come incapaci e svogliati. Questo indica che le radici sono molto più profonde, sono culturali, e purtroppo affondano anche nella terra dell'attività imprenditoriale.

Indubbiamente chi come Cristiano Gaifa offre un lavoro regolare ai giovani di oggi senza avere alcun riscontro positivo può dirsi sfortunato, in un contesto dove normalmente invece sono i lavoratori a lottare per un posto tra migliaia di candidature. Magari forse potrebbe essere una soluzione ricominciare a cercare personale anche tra individui oltre i 30 anni, che più probabilmente hanno esperienza nel mondo del lavoro. Ma quanto questo è reale, in un contesto, tutto italiano, in cui fino a 30 anni sei in età da apprendistato, dopo invece sembri divenire invisibile alle aziende, almeno in alcuni settori? Forse i giovani di oggi, tra i 20 e i 28 anni, rifiutano certe posizioni lavorative anche per questo: perché nonostante gli sforzi che sarebbero disposti a fare, sanno che non seguirà una crescita professionale, e allora scoraggiati e non certo incentivati dal contesto, nel bene o nel male fanno la scelta di non scegliere, e sfuggono alle responsabilità.

Il lavoro insomma oggi è diventata un'emergenza a 360 gradi perché non coinvolge più solo il lavoratore. Siamo arrivati al punto in cui anche l'imprenditore ha serie difficoltà a trovare il personale giusto per la propria attività, o almeno così sembra. Allora forse dovremmo ripartire dalle basi, ripartire dalla qualità della selezione, dalla qualità delle proposte, dall'etica professionale e dall'investire sul proprio personale, punto focale dell'organizzazione aziendale. Ripartire si può solo se non si punta sempre al ribasso, se non ci si accontenta di offrire sempre il meno possibile da un lato, e dare sempre il meno possibile dall'altro. Ci sarà prima o poi un nuovo punto d'incontro?