Negli ultimi mesi si fa un gran parlare della parola a cui è stato assegnato il titolo di “parola dell'anno”, e che non a caso è stata accolta dalla stessa Accademia della Crusca: si tratta della “post-verità”, dimensione tipica dell'attuale mondo massmediale basato sulla comunicazione attraverso i social-network. Il dibattito sulla post-verità ha coinvolto pensatori e giornalisti vari, che spesso hanno tradotto il concetto con “bufala” o in inglese “fake news”.

In realtà il fenomeno della post-verità è ancora più problematico, inquadra eccezionalmente l'immaginario contemporaneo e proveremo a spiegarne le ragioni.

Post-verità o verità del post?

Innanzitutto, la costruzione del termine stesso è suggestiva: post si riferisce alla locuzione latina per “dopo”, ancora oggi molto inflazionata (“postmoderno”, “postoperatorio” ecc.). Perciò in questo senso, la nostra è l'epoca del “dopo-verità”, o in altri termini le categorie maggiormente significative non sono quelle gnoseologiche relative alla verificabilità, quanto l'effetto che una determinata tesi o proposizione assumono, al di là del loro effettivo rispecchiarsi in un determinato stato di fatto. D'altronde, se fosse solo questo, non ci sarebbe stato bisogno di Twitter e dell'elezione di Trump, o della Brexit, per comprendere un principio filosofico che risale a Nietzsche, che sosteneva: “Non ci sono fatti, ma solo interpretazioni”, oppure “La verità è quello speciale tipo di menzogna che serve alla vita”.

Per comprendere l novità di questo concetto, il termine post va letto anche nell'altro senso: post-verità è la verità del post, ovvero la verità che un determinato stato di Facebook, o un Tweet, pretendono di avere. La verità del post, allora, non nega la verità, non la rifiuta, ma rinuncia piuttosto alla verità intesa come corrispondenza tra una dichiarazione e uno stato di cose esterno: la verità è tutta interna al post, e la dichiarazione esprime di per sé la sua stessa verità perché la sua verità coincide con la sua efficacia.

Cinismo e "parresia" nel web

Se la carta stampata si affidava alla vecchia idea di verità basata sull'inchiesta giornalistica e sulla responsabilità del giornalista, i nuovi media del web hanno sacrificato totalmente questa dimensione: la gente non legge più i giornali, e poco importa se il New York Times o il Washington Post tuonino contro Trump.

La nuova arena dell'opinione pubblica è diventato il profilo dei social, ma questa operazione è avvenuta in maniera cinica, e paradossalmente con la stessa dinamica che oggi viene rimproverata ai fautori della post-verità: per molto tempo il giornalismo si è messo al servizio della committenza, della lobby, dell'inserzionista, del partito politico, e così facendo agli occhi dei lettori ha disperso il suo valore veritativo e la sua funzione sociale e informativa. Allora, a quel punto, tanto vale affidarsi alla post-verità piuttosto che a una verità che comunque è pilotata da forze e dinamiche economico-politiche!

Per spiegare il significato della post-verità, è molto utile quanto il filosofo Michel foucault sosteneva a proposito della “parresia”, ovvero lo strumento verbale attraverso il quale si esprime la perfetta coincidenza di opinione e verità.

Non si tratta, come abbiamo detto, di indagare il concetto di verità e discutere le questioni del relativismo, ma ciò che conta è la sovrapposizione fra ciò che si dice e ciò che si pensa, ovvero ciò che si sa essere la verità, ciò che si è convinti sia la verità, e questa è la differenza con la retorica che invece è lo strumento tipico della bufala. Per i greci la parresia è sinonimo di franchezza e coerenza: il dire, il vivere e il pensare arrivano a coincidere perfettamente nello stesso soggetto. Se gli internauti fautori della post-verità si applicassero in tal senso, allora forse il discorso cambierebbe, ma la coerenza non sembra affatto un valore nell'odierno orizzonte della rete.