I maggiori cambiamenti della Storia sono avvenuti tramite imposizione. Un esempio dal passato recente fu quando nell’800 la borghesia, previa rivoluzione, riuscì ad imporre il rispetto di una Costituzione ai monarchi. E’ dunque plausibile che se ancora oggi viviamo in una pseudo-democrazia è perché all’inizio di tutto le decisioni non avvennero per libera scelta. Il pensiero, cioè, non si trasformò gradualmente, ma fu acriticamente imposto in favore di quelle che allora sembravano norme giuste. Chi oggi manifesta il proprio malcontento verso l’Unione Europa dunque, non ha perso la fiducia ma rende noto un disaccordo ben più radicale.

Chi fu realmente concorde nell’associarsi all’Unione Europea? Visto il crescente malcontento è lecito supporre che inizialmente, per quanto i capi di governo risultarono persuasivi, c’era una crescente minoranza di persone che non riteneva necessaria questa metamorfosi.

Il primo referendum italiano dopo la guerra

Nel 1946 il 2 giugno gli italiani vennero chiamati alle urne per scegliere in referendum la monarchia o la Repubblica. Dagli archivi storici si legge che solo il 54,27% dei votanti (che erano in totale 89.08% e non 100), in cui per la prima volta erano incluse anche le donne, scelse la Repubblica che vinse infatti per maggioranza. Questo significò che una grande fetta di popolazione votante non ebbe alcun problema a votare nuovamente la monarchia.

Vi era allora la preferenza che lo Stato, rappresentato non più dal re ma ancora dal dittatore, avesse pieni poteri oppressivi e non ché considerasse il cittadino quale essere umano nell’ampiezza dei suoi diritti inviolabili. Forse pensare alla libertà comporta un grande sforzo mentale.

Il problema è che non eravamo pronti alla Repubblica

La Costituzione Italiana, bruciando le tappe della convivialità reciproca, propose nel 1948 un modello politico e intellettuale futuristico , tanto è vero che molti di quei precetti oggi vengono attuati in modo pregiudizievole perché falsati da una realtà che non ne riconosce il pieno valore.

Oggi nel mondo lottiamo ancora per il rispetto dei diritti umani, come poteva essere condivisa a quei tempi l’idea che si potesse avere integrazione anche conservando la propria identità culturale se ancora non si è riusciti a farlo nel 2017? Non dimentichiamo infatti che le persone chiamate a votare e scegliere un tipo di governo, a pensare e a sottoscrivere la carta costituzionale avevano, ben più delle nuove generazioni, subito cosa significasse vedersi sottratta la propria identità.

Per chi non ha vissuto quel tempo è forse difficile comprendere le motivazioni che spinsero quel restante 45,73% di votanti a preferire ancora la monarchia, nonostante la distruzione che avesse portato nel Paese e non solo.

Poteva essere timore di una nuova ideologia? D'altronde, non si nasconde che anche l’apparato più laico può sfociare in una disfatta in termini relativi di democratizzazione e in termini assoluti di diritto alla vita e dunque, perché non scegliere quello più conosciuto, quello da cui si sa cosa aspettarsi.

Notando le molteplici differenze ideologiche ci si potrebbe chiedere come la comunanza europea oggi, non facendo rima con convenienza sovrana evidentemente, possa debellare quel “dazio umano” che si è creato, ovvero una sorta di capitale improprio indice di disuguaglianza che viene pagato caro ogni giorno: basta una vittima naufragata in acque internazionali per riaccendere la polemica sull'immigrazione, per far legare nuovi fili spinati.

Già solo i primi articoli della nostra Costituzione rievocano il passato nella volontà che non si ripeta, in modo che non vi sia istigazione all’odio e che questa non permetta di inibire la libera scelta di agire, eppure oggi ci sono gruppi di persone che sacrificherebbero la comune Unione Europea a modelli di separatismo federale e conservativo.

Ed ora non ci resta che andare avanti

In conclusione, forse non siamo ancora pronti alle idee che ispirarono la nostra Carta fondatrice e dunque sarebbe oltraggioso (?) considerare, come ultimo tentativo, l’applicazione di un armonioso pluralismo positivo che sfidi ora aspramente le difficoltà emerse per continuare o allargare la visione di un dialogo sempre meno imposto.