Difficile da digerire, soprattutto per l'imputato dell'omicidio di Yara Gambirasio, Massimo Bossetti, che uno dei casi mediatici più controversi e dibattuti degli ultimi 30 anni in Italia sia mestamente relegato alla decisione del presidente della Corte d'Assise d'appello di Brescia di interdire riprese audio/video e foto nell'aula di tribunale in cui si svolgerà, dal prossimo 30 giugno, il processo d'appello.

Effettivamente, per un caso che ha reso famosi tanti personaggi, a vario titolo intorno alla vicenda, che ha spiattellato in piazza aspetti strettamente riservati dell'imputato (alcuni dei quali dal discutibile peso probatorio) suona strana la censura in un momento cruciale della vicenda processuale sulla morte della piccola Yara.

Sulla natura "socialmente" rilevante non ha avuto dubbi neppure la BBC, che sul caso ha voluto farci un documentario, intitolato "Ignoto 1 - Yara, DNA di un'indagine" (trasmesso su Sky a marzo 2017) in cui compare anche la pm, Letizia Ruggeri, cosa che ha destato più di qualche sussurrato commento.

La Procura generale della Cassazione ha voluto approfondire alcuni aspetti legati al docufilm, proprio in ordine alla partecipazione del pm e alle dichiarazioni rese. Nello specifico, si tratta di una fase istruttoria in cui si cerca di capire il "come" e il "quando" del documentario, con particolare attenzione ai rapporti tra Procura di Bergamo e stampa. I pm non possono parlare delle inchieste con i giornalisti.

E nel rispondere all'interrogativo della magistratura, la Ruggeri ha sostenuto che il documentario, in cui ha ripercorso le tappe della mega inchiesta, è cosa diversa dall'intervista.

Il possibile sviluppo dell'appello per Bossetti

Massimo Bossetti, attraverso la difesa, ha sempre sostenuto la sua innocenza chiedendo a gran voce una nuova perizia sul DNA, prova definita "granitica" dall'accusa e da sola, perciò, sufficiente a giustificare il massimo della pena.

Il processo d'appello che si aprirà il prossimo 30 giugno a Brescia non vedrà Letizia Ruggeri a sostenere l'accusa: al suo posto un sostituto procuratore generale. Potrebbe rivelarsi un processo in 4 udienze, con l'intervento del giudice relatore, del procuratore generale, dei legali dei Gambirasio e della difesa di Bossetti.

Potrebbe seguire la sentenza, entro luglio, a meno che la Corte d'Assise d'appello non emetta un'ordinanza per disporre la perizia sul DNA, che allungherebbe i tempi, verosimilmente, sino a sfiorare l'autunno.

Informazione mutilata: il No alle telecamere ferisce stampa e pubblico

In appello non sfileranno i testimoni ma interverranno esclusivamente magistrati e legali. A far discutere sulla giustezza del "No" alle telecamere per Bossetti, è la motivazione addotta dal presidente della Corte: "Non risulta sussistere un interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza del dibattimento". Stiamo parlando, e non è aspetto secondario, di un caso che è stato ampiamente sezionato, sviscerato, campionato e analizzato da tanti, troppi salotti televisivi.

Stiamo parlando del processo dei processi, che un interesse sociale, anche solo per il fatto di aver monopolizzato le colonne di cronaca nera per anni, potrebbe averlo, eccome. E non per un sudicio istinto voyeuristico, ma per una sete di comprensione legittima, in questa come in tutte le vicende giudiziarie in Italia.

Indipendentemente dalla colpevolezza o dall'innocenza di un imputato, non è fantascientifico ravvisare nel divieto alle riprese una mutilazione alla libertà di fare informazione (come nel primo grado che portò alla condanna all'ergastolo per Bossetti) e con essa una restrizione alla capacità intrinseca di fornire all'opinione pubblica strumenti utili alla valutazione dei fatti.

Il diritto a informare in modo completo tutela il lavoro giornalistico e il pubblico. Un "bavaglio" al secondo grado non sarà certo sufficiente a circoscrivere la potenza del caso e il silenzio, ancora una volta, suona più forte di un fiume di parole.