Nel 2015 complici i forti attriti tra le parti, l'ex ministro Stefano Fassina lascia il PD dando un forte scossone all'interno del partito; ora a causa di un referendum che non gli va giù ed una crisi economica che sta affossando l'Italia è pronto a fare la guerra al premier Matteo Renzi.

Con l’arrivo di Matteo Renzi il PD è divenuto incredibilmente un partito di centro-destra. Lei non crede?

Renzi è l'interprete estremo e spregiudicato di un Pd nato al Lingotto, all'insegna della democrazia plebiscitaria e un liberismo europeista. Il Governo di Renzi ha attuato l'agenda neo-liberista dominante nell'euro-zona.

Il Governo Renzi ha rotto il legame con il popolo di sinistra con provvedimenti come il Jobs Act, la "buona scuola", lo "sblocca Italia". Sono queste scelte a determinare l'orientamento politico di un governo.

Nei suoi scritti economici, seguendo una filosofia politica di sinistra, lei dà importanza al ruolo del “Lavoro”. In merito a ciò, quanto l’attuale governo è così distante dal suo pensiero?

Il Jobs Act è una riforma di segno regressivo. Segue la vulgata liberista in base alla quale i diritti fondamentali dei lavoratori sono ostacolo all'efficiente allocazione dei fattori produttivi. Attua un ulteriore intervento di svalutazione del lavoro, misura necessaria nell'euro-zona governata dal mercantilismo tedesco.

Come avevamo facilmente preannunciato, in una fase di carenza cronica di domanda aggregata, non può funzionare. Lo confermano i dati Inps e Istat pubblicati negli ultimi mesi. La variazione dei contratti cosiddetti "a tutele crescenti", dopo la riduzione dei costosissimi incentivi (circa 18 miliardi di euro) torna al livello negativo del 2014, ma i contratti ora sono senza tutela per il licenziamento ingiusto; la liberalizzazione dei voucher genera una valanga di precarietà; la cancellazione dell'art.

18 aumenta i licenziamenti e spinge alla riduzione delle retribuzioni. La buona occupazione si promuove con gli investimenti, in particolare pubblici in una fase di lunga stagnazione.

Nel corso della sua carriera politica è stato vice ministro dell’economia. Ha una ricetta per curare l’Italia da una crisi che nonostante la propaganda non riesce a superare?

Abbiamo proposto al Governo un sostanzioso programma di investimenti pubblici per sostenere la domanda. Un Social Compact di un punto di Pil (17 miliardi) all'anno per tre anni: per mettere in sicurezza i territori dai rischi idrogeologici e le abitazioni dai rischi sismici; per la mobilità sostenibile, innanzitutto nelle città. Al contrario, si punta, secondo l'ortodossia neoliberista, sulle politiche dell'offerta e sulle esportazioni: sgravi a pioggia alle imprese, svalutazione del lavoro e competitività di prezzo.

Capitolo Referendum costituzionale: lei ha appoggiato “il popolo del NO”. Il suo partito in caso di vittoria chiederà le dimissioni di Renzi?

Noi oggi siamo impegnati, ventre a terra, in una campagna referendaria per le ragioni del NO con l’obiettivo di difendere la nostra Costituzione da una forzatura voluta dal presidente del Consiglio e da larga parte del Partito Democratico.

Al momento la difesa degli equilibri garantiti della nostra Costituzione vale più del destino politico di un uomo o di un Governo. È stato proprio questo l’errore di Renzi, l’aver personalizzato dal primo momento questa riforma costituzionale, l'aver trasformato il voto sulla revisione costituzionale in un plebiscito sul capo del governo. Qui stiamo parlando delle regole del gioco, le regole della democrazia che devono tenere insieme una comunità. Noi invitiamo i cittadini a votare NO per la democrazia, la partecipazione e contro il restringimento dei luoghi di decisione. Quello che accadrà riguardo Renzi, dunque, viene dopo. In caso di vittoria del No, l'agenda è definita per qualunque governo: approvazione della Legge di Bilancio uscita dalla Camera e accompagnamento del parlamento alla riscrittura della legge elettorale per andare al voto il più presto possibile.