In un 2016 di svolte epocali, le Nazioni Unite si sono riservate l'ultimo colpo di scena. Con un atto indirizzato al rispetto di una risoluzione vecchia di quasi mezzo secolo, il Palazzo di Vetro si è opposto a nuovi insediamenti israeliani nei territori palestinesi. Nella votazione ha pesato oltremodo l'astensione degli Stati Uniti. Il governo di Israele ha avuto una reazione durissima, soprattutto nei confronti dell'amministrazione Obama, la prima amministrazione della Casa Bianca che, di fatto, non si è schierata apertamente a favore dello Stato ebraico.

Sulla questione è già intervenuto Donald Trump che non ha mai nascosto la sua "vicinanza" a Tel Aviv ed ha già promesso che "le cose cambieranno quando sarò presidente". Un'invasione senza precedenti nei confronti di ciò che è ancora competenza dell'amministrazione in carica: Trump, infatti, sarà presidente 'soltanto' il prossimo 20 gennaio.

Le motivazioni del voto

Secondo quanto espresso dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, i nuovi insediamenti israeliani "costituiscono una violazione del diritto internazionale ed un ostacolo per costruire la soluzione dei due Stati ed una pace duratura". La soluzione a cui il Consiglio fa riferimento è la 242 del 1967, successiva alla 'Guerra dei sei giorni', i cui passaggi principali stabilirono, di fatto, il ritiro delle forze israeliane dai territori occupati a seguito del conflitto ed il reciproco riconoscimento dei due Stati, uno israeliano e l'altro arabo.

Non è mai stata rispettata, se non parzialmente. L'ONU pertanto condanna "le misure che vanno ad alterare la composizione demografica e lo stato del territorio palestinese occupato dal 1967, compresa Gerusalemme Est, zona in cui le case palestinesi vengono confiscate e demolite". Il Consiglio infine chiede misure per prevenire "gli atti di violenza contro i civili e tutti gli atti di provocazione e distruzione".

Da parte degli Stati Uniti c'è stata la decisione di non prendere posizione. "Abbiamo inviato per quasi cinque decenni il messaggio che le colonie devono cessare di esistere - ha detto l'ambasciatrice statunitense, Samantha Power - e la continua costruzione di insediamenti mina la stessa sicurezza di Israele". La Power ha ribadito che "il sostegno statunitense verso Israele non viene meno".

Di diverso avviso i rappresentanti di Tel Aviv che hanno accusato l'amministrazione Obama di "tradimento".

Netanyahu al contrattacco

La reazione del 'falco' non si è fatta attendere. Benyamin Netanyahu ha usato parole durissime nei confronti del Consiglio di sicurezza dell'ONU. "La risoluzione delle Nazioni Unite è inaccettabile per Israele", ha detto il premier che ha già annunciato le sue 'contromosse'. Tra queste, la sospensione dei viaggi diplomatici ufficiali nei Paesi che hanno votato a favore della risoluzione ma anche iniziative contro l'Agenzia dei profughi ed il Comitato per i diritti dei palestinesi, due enti accusati di "comportamenti che danneggiano lo Stato ebraico". Inoltre, il Comune di Gerusalemme ha già annunciato che non fermerà il progetto per la costruzione di ulteriori 618 case nella zona araba della città.

Un 'debito' già saldato

Lo scontro è appena iniziato ma ciò che le Nazioni Unite hanno votato è certamente uno degli aspetti, tra i tanti, che hanno bloccato il processo di pace in Palestina. Per l'amministrazione Obama, l'astensione ha rappresentato il colpo di coda: un atto più che dignitoso nell'ambito di una politica estera che è stata tutt'altro che brillante. Potrebbe non avere un seguito, stando a quanto già dichiarato da Donald Trump, e pertanto rischia di diventare lettera morta. Quando, nel dopoguerra, si decise di dare una terra ad Israele, il mondo intero lo considerò un 'atto dovuto' dopo il dramma dell’olocausto nazista. Ma quel debito con la Storia è già stato saldato e gli "interessi" di cui gode tutt'ora Tel Aviv non sono compresi o, almeno, non deve pagarli il martoriato Stato di Palestina.