In una recente intervista rilasciata al Quotidiano Nazionale Matteo Renzi ha parlato di un ritorno alla Prima Repubblica. Ha dichiarato: “I cittadini perderanno il potere di scegliersi i governi, le decisioni politiche più importanti verranno prese da pochi nel buio del Palazzo. Insomma è tornata la Prima repubblica”.E’ davvero così? Per una comune esigenza di chiarezza Ho posto queste domande a qualcuno che ha vissuto da vicino quegli scenari politici di cui oggi tanto fa effetto riportare alla memoria. Si tratta di Maurice Bignami, ex esponente di Prima Linea, gruppo terroristico attivo tra gli anni 70/80 e oggi aiutare dei romanzi “Gli uomini eguali” e “Lupi e Cani Randagi”

Dott.

Bignami, qualcuno dice che in realtà non è mai stata abbandonata. Lei è d’accordo?

Prima e seconda repubblica sono termini impropri. Non vi è stato alcun passaggio, né costituzionale né politico, tra un modello istituzionale e un altro. È invece accaduto il ‘92, “Mani Pulite”, vale a dire lo smantellamento accelerato per mano della magistratura del sistema politico, una sua estrema semplificazione a due: destra e sinistra, peraltro difficilmente distinguibili nella loro generale propensione a indirizzi neoliberisti. Una modalità tutta italiana di impoverimento della politica, avvenuto in un contesto globale che in pochi decenni ha visto l’irreversibile scomparsa di ogni sua autonomia. L’economia, infatti, ha piegato a sé, tutte le sfere che assieme alla politica un tempo governavano ed esaltavano l’umano: il sociale, l’arte, il linguaggio, il simbolico, il trascendente.

Negli ultimi mille giorni, in modo piuttosto rozzo (tatticamente efficace), con un programma liberal-socialista fuori tempo (più formale che sostanziale), Renzi ha provato a ridare alla politica uno spazio d’azione. Il risultato complessivamente deludente sottolinea la complessità dell’impresa.

I giornali e i politici stessi parlano di una crisi dei partiti.

E’ solo una crisi politica? Cosa ha realmente perso o dimenticato l’Italia di oggi? Su cosa si può realmente puntare per ripartire?

Quando si accede a uno spazio in cui la politica è venuta meno, a prescindere dalle buone intenzioni si è in piena post-democrazia. Nel 1974, quando al referendum per abrogare la legge Fortuna-Baslini sul divorzio la maggioranza degli italiani votò No, Pasolini, più indisponente che mai, scrisse: «il 59% dei “no” non sta a dimostrare, miracolisticamente, una vittoria del laicismo, del progressismo, della democrazia: niente affatto.

Esso sta a dimostrare invece […] che i “ceti medi” sono radicalmente, antropologicamente cambiati: i loro valori positivi non sono più quelli sanfedisti e clericali ma sono i valori […] dell’ideologia edonistica del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di tipo americano […] e al suo posto c’è un vuoto che attende di essere colmato […]. Il “no” è stata una vittoria, indubbiamente. Ma la indicazione che esso dà è quella di una “mutazione” della cultura italiana: che si allontana tanto dal fascismo tradizionale che dal progressismo socialista». Il referendum appena svoltosi denota una nuova mutazione antropologica. Certo, vi sono stati anche elementi contingenti a favorire un’altrettanto sonora vittoria dei no.

Ad esempio, la grande preponderanza del No nel sud del Paese non mi pare il frutto di un amore sviscerato per la Costituzione, né soltanto la conseguenza della miseria crescente, ma anche e forse soprattutto la volontà di mantenere intatte quelle autonomie (Province, sanità regionale, ecc) che hanno consentito in quelle aree una specie di welfare malato, amorale e illegale, ma spesso l’unico esistente. In ogni modo, oggi i valori dei “ceti medi” impoveriti non sono più la libertà, la solidarietà, l’uguaglianza, valori peraltro già sostituiti da quelli liberisti nella precedente fase di decomposizione – ossia mercato, individualismo, meritocrazia – ma quelli cosiddetti identitari e sovranisti: sicurezza, indifferenza e particolarismo