Mentre il neonato Governo Gentiloni si insedia definitivamente, ottenendo anche la fiducia del Senato con un totale di 169 voti –lo stesso, profetico numero ottenuto a suo tempo dal dimissionario Matteo Renzi -, il (riconfermato) ministro del Lavoro Giuliano Poletti si lascia sfuggire ai microfoni dei giornalisti una piccola indiscrezione sul programma: "L’atteggiamento prevalente al momento è quello di andare a votare prima del referendum sul Jobs Act il quale, per legge, verrebbe così rinviato". Insomma, come dire meglio la morte del –brutto e fotocopiato- anatroccolo, che quella del cigno.

Rigorosamente alla prima.

Già, perché mentre la riforma Renzi-Boschi ha effettivamente attirato su di sé lo scorso 4 dicembre il classico lancio di ortaggi sotto forma di una percentuale bulgara di “No”, a giudicare dalle parole di Poletti pare proprio che il nuovo Governo auspichi di fare la stessa, ingloriosa fine. Una manovra che solo all’apparenza può apparire kamikaze, ma che invece nasconde piuttosto maldestramente il tentativo di impedire ai cittadini di votare contro quello che il Pd continua a considerare il proprio fiore all’occhiello: il fallimentare Jobs Act.

Affermazioni gravissime da parte del ministro Poletti. E la Cgil rincara la dose

"Bisognerebbe confrontarsi con i problemi, invece di pensare a rinviarli": sono state queste le parole della segretaria della Cgil Susanna Camusso dopo l’infelice uscita di Poletti.

Un’uscita gravissima che, a Pontassieve, proprio non è piaciuta a Renzi, visto che è stata in grado di coalizzare la Fiom di Maurizio Landini, Sinistra Italiana, i dem e persino Forza Italia in meno di 48 ore, uniti per un prossimo e eventuale “Sì”, in quanto i quesiti proposti si riferirebbero alla possibilità di abrogare definitivamente il Jobs Act.

Naturalmente Gentiloni, oggi a Bruxelles, non ha avuto ancora il tempo materiale di occuparsi di questa nuova “rogna”, come l’ha definita lo stesso Renzi: ma non sarà affatto facile gestirla, dato il vespaio provocato dalle affermazioni di Poletti.

Diciamoci la verità, non capita tutti i giorni che un ministro ammetta candidamente di voler impedire al popolo di votare per un referendum, promosso peraltro dalla più antica organizzazione sindacale che quest’anno ha festeggiato i suoi primi 110 anni.

Ribaltando, automaticamente, la somma dei possibili consensi e vaticinando a sorpresa quel bis del fallimento della riforma costituzionale targata Renzi-Boschi.

Certo, considerato che la questione più spinosa sembra essere quella dei famigerati voucher, nel mirino per aver precarizzato l’occupazione essendo stati estesi a tutte le categorie di lavoratori, si potrebbe pensare di ritoccare per decreto la normativa attualmente vigente, magari "limitandone l’utilizzo ai lavori occasionali", ha spiegato il presidente della commissione Lavoro. Una proposta di legge in tal senso è già stata depositata a Montecitorio, ma la condanna definitiva al sistema voucher e al Jobs Act viene dalle parole lapidarie di Maurizio Landini: "qui non c’è da aggiustare nulla: i voucher vanno tolti.

E si deve tornare allo Statuto dei Lavoratori del 1970, allargandone ulteriormente le tutele".

Infatti, se anche si mettesse mano soltanto ai voucher, limitandone l’utilizzo o abrogandoli del tutto, rimarrebbero comunque in piedi gli altri due dei tre quesiti per i quali la Cgil ha raccolto firme dallo scorso 9 aprile, raggiungendo un risultato storico e senza precedenti: la responsabilità solidale negli appalti e il ripristino del compianto Articolo 18. Fa bene Renzi a definirla “rogna”: se il prossimo 11 gennaio la Corte accetterà –com’è probabile- le istanze della Cgil, una nuova vittoria delle opposizioni gli varrà la squalifica definitiva dai giochi. A meno che, con le elezioni anticipate alla data suggerita del 25 giugno 2017 o addirittura al prossimo aprile, non si neutralizzi il referendum Cgil, creando de facto, un nuovo, pericolosissimo precedente: quello di limitare la volontà popolare.