Con il voto di fiducia in Senato sulla legge di stabilità si conclude oggi l’esperienza al governo di Matteo Renzi. Poco più di mille giorni sono passati dalla cosiddetta manovra di palazzo voluta dall’allora Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, che bruciò Enrico Letta servendosi della popolarità indiscussa dell’ex sindaco di Firenze e segretario del Partito Democratico. Il cosiddetto peccato originale che Renzi si è trascinato dietro sin dal primo istante. Tutti i problemi del premier uscente partono dalla stessa causa: la mancanza di una legittimazione da parte dell’elettorato.

Il rottamatore, divenuto capo di governo, ha forzato la mano trovando subito le resistenze di un Parlamento non suo e diviso da interessi latenti. Ecco che allora la legislatura che doveva essere dell’innovazione si è trasformata in quella del compromesso: con da un lato Napolitano a premere per le riforme e dall’altro il Pd a lavorare per logorare un segretario pericoloso. Renzi è così finito nel mezzo di una tempesta, naufragando mestamente anche per i suoi stessi errori.

Il ritorno dei parrucconi

Tralasciando l’analisi del voto referendario già abbondantemente superato e archiviato, resta de decifrare il futuro di Renzi nella politica italiana. Ripartirà dal 40 per cento delle urne con o senza il PD?

Avrà il coraggio (più che la forza) di riproporre la sua candidatura? Le prime risposte arriveranno dal congresso del partito che si preannuncia infuocato. La minoranza dem è convinta di poter passare alla cassa dopo la vittoria del No: Speranza, Bersani e D’Alema pretendono le dimissioni di Renzi, accompagnate dalle primarie per scegliere il nuovo segretario.

In tanti attendono solo il via libera per rompere gli indugi e presentare la propria candidatura (Speranza, Emiliano e Rossi). A meno che non pensi alla scissione, tuttavia, Renzi conserva all’interno del PD ancora i numeri per imporre la sua leadership. Certo pensare oggi a una sua nuova scalata interna appare quantomeno azzardato, ma sarebbe il modo più semplice per spingere definitivamente la minoranza dem fuori dal partito.

In sintesi: il PD resta ma qualcuno dovrà andarsene.

La rivincita dell’Italicum

Dopo essere stato bocciato, sbeffeggiato e rinnegato, l’Italicum ora piace a molti. Beppe Grillo, nel commentare il risultato delle urne, ha chiesto di tornare al voto con la legge elettorale in vigore riveduta e corretta dalla Corte Costituzionale. Un dietrofront che ha scatenato aspre critiche ma che è frutto di un calcolo certo: in caso di ipotetico ballottaggio, il M5S andrebbe dritto al governo. L’ipotesi fa tremare le gambe ai partiti che piuttosto preferirebbero rimettersi al tavolo, da buoni amici, per cambiare le regole del gioco. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha già fatto intendere di essere contrario allo scioglimento delle Camere.

Il congelamento delle dimissioni di Renzi ha dato tempo al Colle di far partire le grandi manovre che si concluderanno con le consultazioni di rito. Per battezzare un governo di responsabilità istituzionale, tuttavia, servono i numeri in Parlamento e allo stato attuale non ci sono. Un assist a Mattarella potrebbe arrivare da Silvio Berlusconi: l’ex Cavaliere è rinato e non vede l’ora di tornare a dettare la sua linea.