Era il 16 luglio dello scorso anno quando otto militari turchi atterravano in elicottero nella città di Alexandroupolis, fuggiti nottetempo poiché accusati di essere direttamente responsabili del tentato golpe verificatosi il giorno prima.

Si tratta di due maggiori, quattro capitani e due sergenti, che si sono dichiarati innocenti ed estranei ai fatti, ma sono ritenuti, dalle autorità turche, affiliati alla rete del predicatore Fethullah Gülen, la mente del tentato golpe, secondo il governo di Erdogan. Da subito le autorità turche ne avevano chiesto l'estradizione.

Il 26 gennaio veniva negata dalla Corte suprema ellenica.

Le motivazioni risiedevano nel fatto che gli otto militari una volta rientrati in patria non avrebbero subito un giusto processo, data l'accusa emessa nei loro confronti e vista anche le violazioni dei diritti umani perpetrate da Ankara nei confronti non solo dei militari ma anche di giornalisti, docenti universitari, funzionari pubblici.

Nello stato di diritto le sentenze non competono al governo

Ieri, il ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu è stato perentorio nello stigmatizzare la decisione dei magistrati greci, e ha minacciato tutta l'Unione Europea di rompere l'accordo sui rifugiati: «Stiamo valutando il da farsi, ma è chiaro che le nostre relazioni ne soffriranno.

C‘è un accordo sui migranti che abbiamo firmato, stiamo valutando varie opzioni, inclusa quella di annullarlo.

Non possiamo guardare positivamente a un paese che dà riparo a terroristi e golpisti». Per conto suo il governo del primo ministro Tsipras ha semplicemente risposto che essendo la Grecia uno stato di diritto le decisioni della magistratura non gli competono, per cui nelle sentenze il potere esecutivo non può avere voce in capitolo.

Ma la repressione continua

Non appena veniva emessa la sentenza della Corte suprema, la 12 Corte criminale di Istanbul, dietro richiesta dell'ufficio del procuratore capo, spiccava dei mandati di cattura internazionali nei confronti degli otto militari. Ma per evitare procedimenti di questa natura i fuggitivi avevano già fatto domanda alla Grecia di asilo politico, dato il serio rischio di essere uccisi in patria.

C'è da dire che l'opera repressiva di Erdogan non si è per nulla fermata, neanche in queste ultime settimane, visti i migliaia di arresti, cosa denunciata dalle Ong per i diritti umani tra cui Human Right Watch.

Il governo turco ha inoltre rincarato la dose mettendo l'accento sulla natura politica della sentenza, rimproverando la Grecia di essere ricettacolo di terroristi che vengono ospitati e lasciati liberi di organizzarsi dei campi di addestramento, in riferimento all'organizzazione kurda PKK, quella di Abdullah Öcalan, i cui militanti sono invece considerati dal popolo kurdo dei combattenti per la libertà.

Gli accordi a metà

C'è da dire che lo spettro di rompere l'accordo sui migranti, siglato nel marzo 2016, la Turchia lo agita costantemente, soprattutto in riferimento ad uno dei due Do ut des.

L'accordo prevede che la Turchia impedisca di valicare le frontiere da parte dei rifugiati verso le isole greche in cambio di 6 miliardi di euro e della liberalizzazione dei visti da parte dei cittadini turchi. Se a quanto lamenta Ankara, di soldi ne hanno visto pochi, circa 600 milioni, ma l'Unione Europea parla di aver superato i due miliardi, quello dei visti sembra essere un argomento tabù dentro le istituzioni europee, poiché avrebbe dei risvolti nella repressione dei dissidenti, di cui l'Europa sembra preoccupata, ma finché può fa buon viso a cattivo gioco...