Filo diretto Washington-Mosca. Il possibile asse tra la Casa Bianca ed il Cremlino nasce dalla Siria e l'obiettivo comune è quello di sradicare lo Stato Islamico. Stavolta non sono supposizioni o facili teorie nati da proclami e conferme dall'una o dall'altra parte. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ne ha parlato con il suo omologo russo Vladimir Putin nel corso di un colloquio telefonico. Trump ha confermato dunque la sua intenzione di collaborare attivamente con la Russia in Medio Oriente allo stesso modo con cui sta confermando con i fatti tutte le sue intenzioni che qualche mese fa potevano sembrare soltanto 'bombe mediatiche da campagna elettorale'.

Al telefono con Putin

Il colloquio con il presidente russo segue di qualche giorno l'indiscrezione del New York Times secondo la quale Trump avrebbe dato al Pentagono trenta giorni di tempo per elaborare un nuovo piano militare in Siria. Tra le ipotesi, anche quello dell'invio di truppe di terra per attaccare Raqqa, roccaforte del Califfato. Al telefono con Vladimir Putin, il leader della Casa Bianca si è dichiarato "favorevole a coordinare le azioni statunitensi con quelle russe per combattere l'Isis e le altre milizie jihadiste in Siria". La controparte ha usato più o meno gli stessi toni. Chiaro che Washington ha intuito la posizione di 'grande arbitro della contesa' rivestito in questo momento dal Cremlino che, dopo l'intesa di Astana con Turchia ed Iran, è in grado di dettare la sua linea ai prossimi negoziati di Ginevra sulla Siria (8 febbraio, ndr).

Trump non può e non vuole restarne fuori. Nel corso del colloquio con Putin, avrebbe rilanciato la sua idea di istituire 'safe zone' per i rifugiati, ma la questione dovrà passare necessariamente al vaglio di Mosca che, al momento, sembra piuttosto perplessa in merito.

Blocco di tre mesi ai rifugiati di sette Paesi musulmani

Intanto Donald Trump sta dando seguito al suo giro di vite sull'immigrazione ed ha sospeso il programma di ammissione dei rifigiati in vigore dal 1980, a seguito del quale oltre due milioni e mezzo di persone avevano raggiunto gli States nell'ultimo trentennio.

Nel decreto, c'è lo stop agli accessi da ben sette Paesi islamici considerati "a rischio terrorisimo": Siria, Libia, Iraq, Iran, Yemen, Sudan e Somalia. Unico, evidente neo di questa drastica iniziativa dell'amministrazione Trump è 'il pericolo che viene dall'interno', se consideriamo che gli autori degli attentati sul suolo americano non erano affatto migranti o rifugiati ma cittadini statunitensi come il kiler di San Bernardino, Syed Rizwan Farook, oppure il responsabile della strage al night club di Orlando, Omar Mateen.

In ogni caso, Il provvedimento è stato fortemente criticato dalle Nazioni Unite. Dal Palazzo di Vetro è partito un appello verso la Casa Bianca, congiuntamente alle maggiori organizzazioni internazionali che si occupano di profughi di guerra, a non sospendere "la lunga tradizione di accoglienza degli Stati Uniti, senza distinzioni di nazione, razza o religione".

Le tensioni 'messicane'

Ma la prima guerra dell'amministrazione Trump è già iniziata ed è quella diplomatica con il vicino Messico. Il decreto per la costruzione del muro al confine tra i due Paesi è già stato firmato, 'The Donald' ha persino dichiarato che "saranno i messicani a pagarlo". La risposta del presidente Enrique Pena Nieto è stata molto dura.

"Washington rispetti la nostra sovranità", ha dichiarato. Successivamente la Casa Bianca ha cercato di gettare acqua sul fuoco. "I presidenti di Stati Uniti e Messico - si legge in una nota - concordano di dover lavorare insieme per superare le divergenze nell'ambito delle relazioni bilaterali". Ordinaria diplomazia, anche se c'è chi dice che le relazioni suddette non sono mai state così tese dai tempi della battaglia di Alamo: una pagina eroica della storia americana e, pertanto, materia di chi vuol fare nuovamente grande l'America. Ironia? Ma anche no.