Cambiano gli equilibri, cambiano i vertici all’interno del Partito Democratico. Matteo Renzi non rappresenta più la maggioranza al Nazareno, stretto in un angolo dagli stessi uomini che lo avevano sostenuto fino all’ultimo istante dell’esperienza a Palazzo Chigi. L’ex premier è uscito sconfitto infatti già prima del Congresso che pure arriverà (forse a giugno) per sancire ciò che ai più appare ormai evidente. Il ribaltone alla fine si è consumato e non per mano di Massimo D’Alema, rimasto ad assistere alla finestra - con una certa soddisfazione - all’eclissi del rottamatore.

A guidare il cambio di assetto dei democratici due ministri di spicco del governo Renzi: Dario Franceschini e Andrea Orlando. Dopo aver stoppato sul nascere il desiderio di urne dell’ex sindaco di Firenze, Franceschini e Orlando hanno contrattaccato revocando la fiducia all’ormai ex leader. Il sospetto che qualcosa stesse avvenendo nell’ombra lo si era percepito allorché, lo stesso Renzi, aveva confidato all’amico Dario Nardella di non essere più il futuro candidato del partito.

Grane a Cinquestelle

Se nel PD è andata in onda una vera e propria restaurazione che ha consegnato alla storia l’era della rottamazione renziana, ben diversi sono i problemi all’interno del Movimento5Stelle. L’attenzione sulla posizione delicata di Virginia Raggi resta altissima e ogni giorno un nuovo colpo di scena si aggiunge a una collezione già ricca variegata.

Beppe Grillo, a testa bassa, ha blindato letteralmente la sindaca dagli attacchi incrociati dei suoi detrattori. Il M5S non può permettersi di fallire a Roma alla vigilia di un appuntamento elettorale cruciale che rappresenterebbe un vero punto di svolta. Eppure l’impasse amministrativa nella Capitale resta evidente, nonostante i manifesti di propaganda che puntano a mettere in vetrina i clamorosi successi della nuova giunta.

Il caso dell’ex assessore all’Urbanistica Paolo Berdini (l’ultimo in ordine di tempo) ha contribuito a screditare le capacità politiche della novella classe dirigente che fatica a carburare nelle vesti di forza di governo. Per questo la resistenza a oltranza in Campidoglio resta l’unica soluzione percorribile.

Centrodestra sorride

Ad attendere le urne con una certa tranquillità è invece il Centrodestra che punta tutto sulla nuova architettura della legge elettorale. Per Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega, la parola magica è il premio di maggioranza alla coalizione. Se in Parlamento si trovasse un accordo in tale direzione il Centrodestra potrebbe divenire il terzo incomodo, pronto a godere tra i due litiganti PD e M5S. Proprio in considerazione di ciò si è registrata una tregua tra Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, che si trovano potenzialmente tra le mani un’occasione irripetibile: quella di arrivare a Palazzo Chigi attraverso un’alleanza storica già vincente. A dispetto dell’attuale consenso elettorale molto dipenderà, in ogni caso, dal desiderio di gloria del segretario del Carroccio.

Salvini invoca da tempo le primarie di coalizione che, naturalmente, non si faranno finché Berlusconi resterà in prima linea. L’ex Cavaliere potrebbe però cedere per cavalcare il malcontento dell’elettorato più conservatore che si affiderebbe volentieri al Trump in salsa italica. Uno scenario ancora tutto da scrivere.