Lo storico inno del socialismo internazionale, Bandiera rossa, apre la manifestazione della Sinistra Pd nel romano teatro Vittoria di Testaccio. Sullo sfondo, un maxischermo dove scorrono immagini iconiche, come quella di Bernie Sanders - il candidato socialista sconfitto per un soffio da Hillary Clinton nelle primarie del Partito Democratico Usa - oppure quelle delle guerrigliere curde comuniste del Pkk o dello Ypg.

“Care compagne e cari compagni”, il primo a prendere la parola dal palco del Vittoria, utilizzando una formula vecchio stile per rifarsi il trucco, è il governatore della Toscana, Enrico Rossi.

Inizialmente l’iniziativa politica di oggi era stata pensata per lanciare la sua candidatura alla segreteria Pd, ma il precipitare degli eventi verso la scissione ne ha modificato la scaletta. “Siamo mossi dalle risposte finora inadeguate che il mio partito ha dato. Vogliamo lottare”, così Rossi spiega le ragioni della rivolta nei confronti della segreteria di Matteo Renzi. Il partigiano Enrico fa mea culpa per aver “accettato troppo supinamente il mondo così com'è”, dominato dal dio mercato. Le sue nuove parole d’ordine sono “svolta politica” e necessità di dare vita ad un “partito partigiano” che stia dalla parte dei lavoratori e non più da quella dei padroni come Sergio Marchionne.

Rossi respinge l’idea di indire un congresso lampo, utile solo come “conta” per riconsegnare il partito al segretario Renzi.

“Noi non siamo disposti a partecipare ulteriormente alla trasformazione del Pd nel partito di Renzi”, alleato di Alfano, Forza Italia e Verdini, affonda poi il colpo imputando la responsabilità di una eventuale scissione all’ostinazione dei renziani. Rossi auspica una “direzione collegiale” del partito e chiede un congresso dove ci sia spazio per le istanze della Sinistra Pd.

In caso contrario, sentenzia, “sarà compito nostro dare inizio a una nuova storia, senza rancore”.

Gli fa eco Pierluigi Bersani che pretende il congresso a settembre, dove ci sia una “discussione” vera, e l’appoggio incondizionato del Pd al ‘suo’ governo Gentiloni fino al 2018. Anche nel suo caso, la scissione viene sbandierata come un vessillo, ma non dichiarata ufficialmente.

Poi è il turno di Roberto Speranza che, dopo aver comunicato di aver ricevuto una telefonata di Renzi in mattinata, definisce il congresso come “l'ultima opportunità per tenere assieme i nostri mondi” altrimenti, minaccia, “ci sarà bisogno di offrire al paese un nuovo centrosinistra”. Il pupillo bersaniano promette, però, che non parteciperà ad un congresso “plebiscito-rivincita di un capo arrabbiato”, e attacca l’attuale gruppo dirigente legato al Giglio Magico, facendo riferimento al fuorionda di Graziano Delrio che imputa proprio a Renzi la responsabilità della scissione.

“Il Pd è un grande sogno al quale non voglio rinunciare”, irrompe sulla scena con la sua mole Michele Emiliano. Il governatore pugliese, anch’egli candidato al Nazareno, senza citare direttamente Renzi, lo accusa di essere arrogante e prepotente.

Poi, con una punta di ironia intinta nel curaro, chiede scusa per essere stato uno dei suoi tanti sostenitori, ora pentiti, e paragona la segreteria Bersani con quella attuale, riuscendo a strappare uno scroscio di applausi alla calorosa platea. Anche lui, però, evita di mettere nero su bianco la parola scissione, ma chiede con forza una “conferenza programmatica” e la rinuncia alla segreteria da parte di Renzi.