Due milioni di militanti e non sentirli. Con buona pace delle primarie e del plebiscito incassato dal segretario Matteo Renzi, il Partito Democratico resta una polveriera pronta a esplodere. Non che l’inclinazione fisiologica alla litigiosità del più grande partito del centrosinistra sia un fatto nuovo. A sorprendere è però la sua capacità all’autolesionismo e la volontà razionale dei suoi massimi esponenti di viaggiare a pochi centimetri dal tragico precipizio. Nell’era del populismo e del ritorno all’autoritarismo, il Pd ha ceduto alla concorrenza la capacità di fungere da riferimento politico e sociale.

Le lotte fratricide colme di personalismi dilaganti hanno definitivamente archiviato un passato costruito all’ombra dei tre grandi partiti di massa (Democrazia Cristiana, Partito Comunista e Partito Socialista) che erano, al tempo stesso, il vanto e la dannazione dell’elettorato italiano. Gli eredi diretti di quella tradizione avevano puntato tutto sul PD, che doveva e poteva rappresentare quella sintesi doverosa tra le culture laiche e progressiste. Una scommessa che è naufragata mestamente per la felicità degli squali che oggi sguazzano in un mare in tempesta.

I padri del fallimento

In molti (forse troppi) hanno impresso la loro storia sull’album di famiglia del PD: da Prodi a D’Alema, da Franceschini a Bersani, da Veltroni a Renzi.

Tutti hanno saputo scalare le gerarchie della segreteria democratica, ma nessuno è riuscito a imporre la propria leadership fino in fondo. Una mancanza causata principalmente da un grosso peccato originale nello Statuto: l’equiparazione tra le figure di segretario e di candidato alla premiership. Sul tema la cosiddetta letteratura politica non è mai mancata, ma sono stati più che altro i fatti a rendere palese tale verità.

Dopo aver difeso a oltranza l’unificazione delle due cariche, in molti all’interno del PD hanno invocato il cambiamento repentino del regolamento. Una sorta di “supplemento di riflessione politica” come la definiva un anno fa Giorgio Merlo per l’Unità, che Renzi ha sempre ripudiato perché impegnato a portare a termine la trasformazione del PD nel suo partito personale.

Una mutazione genetica accelerata (ma giustificata dal verdetto delle recenti primarie) che ha portato allo scollamento definitivo dell’anima di Sinistra del partito da quella di Centro, con risultati a dir poco deficitari.

I nodi al pettine

Dopo il tracollo alle elezioni amministrative un passo indietro di Renzi (nella gestione del partito) sarebbe stato auspicabile ma non è arrivato. La minoranza dem non è rimasta così a guardare e ha sfruttato la debacle per spostarsi dal PD ancora più in là con la tenda (per dirla alla Prodi ndr). Quasi a voler evitare il rischio contagio, le singole forze politiche del Centrosinistra hanno rivendicato la loro distanza dal partito di Renzi. Mentre altrove si discute notte e giorno di alleanze e di federazioni (per rispondere presente a una potenziale nuova legge elettorale con sistema proporzionale), nel campo dei progressisti tutto tace.

L’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia (l’attuale alter ego del leader PD), ha cercato senza successo di creare un ponte con il Nazareno. Le comunicazioni si sono subito interrotte per il veto posto da Renzi nei confronti di D’Alema. Una spaccatura confermata dal coordinatore dem, Lorenzo Guerini, in un’intervista a La Stampa: “Sul merito delle questioni siamo interessati ad ascoltare tutti, ma constato che nella manifestazione di sabato più che i contenuti sono emerse posizioni contro il PD e contro il suo segretario”.