Si diffondono perplessità sull'intenzione del Viminale di approntare le "linee guida" per lo sgombero degli edifici di Roma occupati dagli immigrati stabilendoli negli immobili e nelle aziende nazionali confiscate alla criminalità organizzata. La direttiva potrebbe - anche se è improbabile - ingiungere la requisizione di edifici rimasti vuoti; nel qual caso, oltre a non essere attuabile giuridicamente, si tratterebbe non di risolvere ma solo di spostare il problema, e allora, scrive in una nota Roberto Calderoli (Ln), "la toppa sarebbe peggio del buco".

Certamente la priorità resta l'ordine pubblico: una decisione irremovibile anche dopo l'intervento delle forze dell'ordine occorso durante lo sgombero coatto dei 40 migranti in via Curtatone - nel quale, secondo Emma Bonino (Ri), "abbiamo perso tutti: la politica, il paese, i migranti stessi", - e dopo il rifiuto di ospitarli espresso nelle ultime ore dal sindaco di Forano, suscitando polemiche per un procedimento che andrebbe attuato solo in vista di "soluzioni abitative alternative".

Il Viminale continua a tessere la tela dell'intesa con (e pro) la Libia

In settimana programmato dal Campidoglio anche l'incontro del ministro dell'Interno Marco Minniti col sindaco di Roma Virginia Raggi per fare il punto sui temi di sgombero, accoglienza e integrazione.

Come si dovrà procedere, non è ancora del tutto chiaro: anche perché il persistente richiamo al diritto all'abitazione non è sufficiente, nel caso concreto, a soddisfare alle domande d'asilo di quanti richiedono di essere trasferiti in altri Stati membri - domande che troppo spesso, per il loro numero, finiscono inevase.

È, d'altro canto, un fronte molto ampio quello su cui opera il Viminale, che, dopo il rinnovato accordo con i 14 sindaci libici per garantire "alternative di crescita e sviluppo" alle comunità libiche locali "più duramente colpite dall'immigrazione illegale, dal traffico di esseri umani e dal contrabbando", impegna ora a fornire a Tripoli una risposta "rapida" quanto a beni di prima necessità.

Una "relazione speciale" è stata definita quella che lega l'italia alla Libia, e che favorisce una riduzione del flusso di migranti con operazioni finanziate dai paesi europei per rinchiudere i migranti medesimi in appositi centri di detenzione - perché, si sa, si muore solo nel Mediterraneo. E che subordina all'interesse economico il mantenimento della pace, rafforzando l'autorità del leader di turno (ora è Sarraj) perché 'tenga sotto' il suo popolo e ne favorisca l'espropriazione per (nostra) mano straniera.

Ma quel che sovente si dimentica è come questa relazione si sia fondata nel tempo su accordi e convenzioni riguardosamente sbilanciati da parte libica.

L'Italia è in perenne credito verso la Libia per le confische di Gheddafi...

Nel 1970, dopo il colpo di Stato che costrinse all'esilio il re Hasan al-Senussi, Gheddafi pretese dall'Italia - il nemico 'esterno' a cui era necessario contrapporre una solida base di consenso interno - il risarcimento dei danni provocati dalla colonizzazione e dalla guerra (cosa mai richiesta da nessun ex stato coloniale!). Fu così ordinata unilateralmente la confisca dei beni degli italo-libici (all'epoca circa 20.000), e in rapida successione la loro espulsione dal territorio libico.

Le ditte italiane vennero inglobate dallo Stato libico; sussistevano tutti i presupposti per un'insperata reazione. E l'Italia avrebbe indubbiamente patrocinato la causa, se non fosse stato per una bagattella chiamata 'politica internazionale distensiva': dal 1959 l'Eni estrae petrolio, il Mediterraneo è praticamente un prolungamento del Nordafrica, la lotta al terrorismo una pia illusione - dal momento che Gheddafi ne diverrà alfiere tanto in Europa (Ira) quanto in Medio e Vicino Oriente (Settembre Nero), inimicandosi in questo modo gli Stati Uniti.

La questione della confisca dei beni andò a toccare anche i contributi previdenziali, in violazione del Trattato del 1956 sottoscritto dall'Italia con il Regno Unito di Libia per un totale di 400 miliardi di lire (3 miliardi di euro nel 2006).

Ma non fu neppure menzionata in quello che doveva essere un trattato risolutivo del contenzioso tra Italia e Libia, il Comunicato congiunto Dini-Mountasser del 1998. Poiché dunque il pareggio degli esborsi dell'Erario italiano andavano per le lunghe, cominciò a serpeggiare l'idea di un "grande gesto" simbolico che chiudesse il contenzioso: nel 2001 venne proposto (e poi confermato) il progetto di un ospedale oncologico in Libia per un costo di 60 milioni di euro, salvo poi trasformarsi - per capriccio del colonnello - in quello di un'autostrada (e la spesa prevista schizzare a 1,5-6 miliardi di euro) in occasione dell'incontro fra Berlusconi e Gheddafi dell'ottobre 2003.

...ma l'intesa petrolifera non permette di onorarlo

È, da ultimo, con il Trattato di Bengasi che si dà per risolto in via definitiva il risarcimento dei danni coloniali, garantito da una sanzione salatissima e dalla costruzione di 2.000 chilometri di autostrada lungo la costa libica. Peccato che i 3,5 miliardi di euro investiti per i lavori coprano solo parzialmente contributi previdenziali e danni alle aziende fatte chiudere nel 1970, il valore dei quali è valutato in soli (al confronto) 600 milioni di euro. Come pensare che questo dato sia sfuggito a un Berlusconi o ad un Frattini?

Ma questo e altro per salvaguardare i buoni rapporti tra l'Eni e la compagnia petrolifera nazionale libica (Noc), che nel 2007 sono stati rilanciati nell'ottica del reciproco scambio: accesso alle estrazioni da nove pozzi offshore su dieci in cambio di gas italiano alle aziende locali e di partecipazione libica all'1% delle azioni di Eni, oltre a concessioni all'Italia per l'export di armi leggere.

Ecco dunque palesata l'essenza del rapporto clientelare che relega il Governo italiano al ruolo di servo di tali e consimili, lucrosi interessi: più prudenza nelle relazioni, più guadagni per le aziende italiane locali che siano in grado di dotarsi di un'influenza di capitali tanto forte da incidere sui poteri decisionali; e tale che i governi stessi possano farvi affidamento quale strumento diretto a consolidare le loro politiche.

Mai ci si sognerebbe, da parte nostra, di chiedere alla Libia un equo risarcimento per la confisca dei beni o la sospensione dei contributi previdenziali degli italo-libici, né tanto meno per i danneggiamenti procurati dalla loro espulsione o dalle rappresaglie dei ribelli libici: l'interesse nazionale è ormai integralmente sacrificato all'interesse multinazionale delle compagnie petrolifere, di chi, cioè, società miste o dell'alta finanza, dalla Libia ricava prodotti ed utili privati.

E proprio quei debiti mai estinti, quei soldi mai ricevuti sono quelli che consentirebbero di gestire non solo gli sgomberi, ma finanche corsi di formazione professionale per una manodopera sempre più necessaria in settori che gli italiani stanno smantellando. E di superare, con adeguati interventi, la disomogenea distribuzione del richieste d'asilo al cui affollarsi inevitabilmente porta il tanto deprecato sistema-Dublino.