Che l'Italia sia un Paese ancora arretrato lo testimonia ancora una volta l'iter delle leggi che, puntualmente, mancano di attuazione nella vita pratica. Come scrive su La Stampa di oggi Linda Laura Sabbadini, l'attuazione di una sentenza storica come quella dell'8 novembre 2016 si è rivelata complicata e le aspettative sono state tradite. Nel suo articolo - "La battaglia infinita per il cognome della madre" - la Sabbadini punta il dito sulla difficoltà, in Italia, di superare certi retaggi del passato. Di fatto, il patriarcato e la potestà maritale sopravvivono e ingessano non solo la vita familiare, ma sono responsabili della stessa lentezza di approvazione delle leggi.

Sentenza 286/2016

Come scrive l'autrice dell'articolo, a un anno dalla Sentenza 286 della Corte Costituzionale in merito al doppio cognome da dare ai figli, nulla o quasi si è ottenuto. Questo, in ragione dell'inadeguatezza della legge stessa, che, se da un lato è sembrata rivoluzionaria nei propositi ai suoi esordi, si è rivelata inconcludente e incompleta in fase di attuazione pratica nella vita reale e cioè, nell'ambito del diritto di famiglia. La sentenza del novembre scorso diceva infatti che entrambi i genitori hanno il diritto di apporre al neonato il rispettivo cognome. Ma aggiungeva anche - qui la lacuna della legge- che "in assenza dell'accordo dei genitori, resta valida la generale previsione dell'attribuzione del solo cognome paterno."

La Corte EDU e il sistema giuridico italiano

Come fa notare amaramente la Sabbadini, la volontà riformatrice del parlamento italiano è quanto mai dubbia.

Se ancora a un anno dalla sentenza, nulla si è fatto sul campo dei diritti dei coniugi (ancora ben lontano dall'essere paritario) e su quello dell'identità del minore (di fatto negata, nel momento stesso in cui gli viene preclusa l'identificazione, sin dalla nascita, anche con il cognome materno). La stessa Corte EDU ha rinvenuto la profonda lacuna nella legislatura italiana, laddove l'aggiunta del cognome materno a quello paterno in fase di registrazione del neonato, di fatto non compensa la disparità morale/giuridica tra i coniugi.

Dall'illegittimità al diritto

Come si evince dall'articolo, la sentenza del novembre scorso ha dimostrato l'illegittimità della norma precedente, quella che assegnava automaticamente il cognome paterno ai figli. Manca però il passaggio successivo, quello che metta la donna sullo stesso piano dell'uomo. Sopravvive invece la concezione patriarcale della famiglia: in questa ottica, soltanto, può essere giustificata l'assegnazione del cognome paterno e continuare invece l'incertezza su quello materno.

Una visione - quella patriarcale - che persiste ancora nonostante ogni affermazione del contrario. Una reticenza a superare il passato che va anche al di là del maschilismo e dell'arretratezza culturale. Una conservazione di valori del Novecento che, di fatto, limita fortemente la donna, perché la priva dei diritti fondamentali e costituzionali di uguaglianza all'uomo. Ma che porta con sé un'idea di famiglia in cui lo squilibrio nel rapporto di coppia e verso i figli è incompatibile con la concezione moderna di famiglia.