In data 26 ottobre 2017 la rivista National Geographic ha pubblicato un articolo inerente alle fobie, chiedendosi se quest’ultime fossero innate nell’uomo o avessero un inizio. Da un esperimento svedese si è scoperto che alcune di queste paure, quelle rivolte a ragni e serpenti, sono effettivamente inscritte dentro di noi prima dello svilupparsi della personalità: mostrando immagini di questi animali a 48 infanti di sei mesi si è riscontrato un allargamento della pupilla rispetto a quando venivano mostrate loro immagini di pesci e fiori. La dilatazione delle pupille viene infatti associata all’attività del sistema noradrenergico nel cervello, lo stesso che elabora lo stress.

Al di là però delle fobie innate, la paura, una delle emozioni che hanno più effetto sulla nostra persona, si insidia in noi in molte forme: paura di ciò che non conosciamo, di ciò che conosciamo e per questo ci impaurisce, di ciò che immaginiamo ci accadrà. Terrore di rimanere abbandonati o rifiutati, paura di rimanere svegli coi nostri pensieri, paura di venire derisi, paura di morire, di rimanere feriti, di sporcarsi. L'angoscia, la paura di sbagliare. La paura ha talmente tanto potere su di noi che non può essere semplicemente constatata come ovvia e nulla più: è necessaria ripensarla criticamente per comprenderne origine, motivi, come la si supera, cosa non fare di fronte ad essa (ad esempio nascondersi da essa e fuggire, e cosa vuol dire "fuggire la paura") e in quale forma essa si manifesta in maniera preponderante nel nostro tempo.

Cos'è e come nasce la paura?

Secondo quanto scrive Galimberti nel suo Dizionario di psicologia, la paura è un'emozione di difesa, ed è provocata da un pericolo reale o immaginario. Si tratta infatti di un notevole strumento di salvaguardia della specie alla cui base c’è un meccanismo fisiologico: gli stimoli minacciosi attivano l’ipotalamo la cui parte posteriore porta alla liberazione di ormoni che stimolano la ghiandola ipofisi a produrre ACTH che induce i surreni a produrre un altro ormone ACH.

Provare paura dunque è un fenomeno normale e per di più "salutare": ci fa rendere effettivamente conto di quanto una situazione sia pericolosa per la nostra incolumità, scatenando una reazione che ci permetta di metterci al sicuro. La paura ha il merito di far nascere in noi il concetto di limite, senza il quale ci autodistruggeremmo senza rendercene nemmeno conto.

Non solo, mediante la paura della punizione, a livello istituzionale, l'uomo è portato a repellere comportamenti criminali che renderebbero insostenibile la vita in società. Non è possibile quindi negare l'utilità di questa emozione o pensare di poterla eliminare senza conseguenze. Altrettanto innegabile però è che la paura spesso si trasformi, da utile strumento, ad un vero e proprio "schiavista" nei nostri confronti, paralizzandoci e vietando ogni azione spontanea. Da cosa nasce la paura? Il bambino, ad esempio, nelle prime fasi, raramente si dimostra timoroso del mondo che lo circonda; si trova infatti in una sorta di felice oblio, un non curarsi troppo delle cose osannato da Nietzsche. Il bambino conosce questa potente emozione dopo aver sofferto: quando allunga la mano verso il fuoco, imprudente ed incuriosito, scopre con orrore che questo gli divora la pelle ed i muscoli, causandogli dolore.

Da quel momento, il bambino avrà paura del fuoco, perché per causa sua ha sofferto. Le nostre paure funzionano quasi sempre allo stesso modo: non è una situazione in sé che ci inquieta, ma come noi la percepiamo, quanto una situazione simile ci ha fatto soffrire in precedenza. Perché, ad esempio, si ha paura dell'amore, o dell'abbandono? Perché per amore abbiamo sofferto, o siamo stati abbandonati. La paura pietrifica lo slancio che ci caratterizza come esseri umani, spegne la fiamma, e la fame di cose grandi, che colorano la nostra esistenza. Da ciò sentiamo la forte necessità di ripudiarla, di liberarcene o di metterla a tacere, di fuggire da essa. Pascal e Kiekegaard ben rappresentano questa scelta che l'uomo spesso inconsciamente intraprende.

A parer del primo, l'uomo, sia che soffra pesantemente, sia che invece si trovi in una situazione più morbida, giace in una vita miserabile, fatta di angoscia e pensieri distruttivi, per questo si abbandona a quello che egli chiama "divertissement", divertimento, che va inteso come distrazione (dal latino devertere); lasciarsi distogliere dalla realtà e dalla vera condizione umana. Divertimento è qualsiasi attività in cui l'uomo si cala e che lo porta a non riflettere sulla propria condizione miserabile: chiarissimo esempio di queste "distrazioni", sono quelli che conosciamo come i "vizi". Allo stesso risultato giunge Kierkegaard: Il don Giovanni di cui egli ci racconta, angosciato di fare una o più scelte sbagliate nella propria vita, preferisce abbracciare una vita che l'autore chiama "estetica", fatta di dissoluzioni, di pure apparenze, di mera superficie, senza l'impegno della scelta e l'ansia che porta con sé.

Ma sebbene l'uomo mediante i vizi cerchi disperatamente di fuggire dalla paura, proprio in questi essa vince totalmente su di noi. Prendiamo ad esempio lussuria, gola e avarizia: esse altro non sono che la necessità spasmodica di riempirsi di affetti, o di affetti "sublimati", (cibo, o soldi, o proprietà, o begli oggettini luccicanti ultimo modello, anche l'esagerare nel lavoro e negli impegni), a causa del terrore mal celato di rimanere da soli, di ritrovarsi vuoti. La pigrizia, l'accidia: terrore puro del mondo e della altre persone. Perché dovrei mettermi in gioco se ciò che faccio verrà deriso e triturato? Se io verrò deriso e schiacciato. Meglio rimanere sul divano. Il vizioso non può essere giudicato: chi siamo noi per osar dire anche mezza parola sulla vita degli altri?

Per di più, ognuno di noi è a suo modo vizioso, ognuno di noi ha le proprie paure da cui (comprensibilmente) vuole fuggire. Ma in una realtà dove la paura non viene affrontata, ma anzi raggirata, dove ci si prende in giro e ci si illude di star facendo qualcosa, dove l'unico obiettivo sembra essere la mera soddisfazione di un impulso momentaneo e nulla più (come dice il comico statunitense Louis C. K. nel prendere in giro con amarezza il nostro vivere: "just satisfied"), come la realtà che viviamo oggi, la paura cede il posto, senza mai scomparire, ma anzi rinforzandosi, alla noia. Al vuoto. Al grigio. All'assenza di senso. Alla disperazione muta, e nemmeno riconosciuta come disperazione, che ci accalappia e ci rende prigionieri del nostro bel recinto curato, sprofondandoci sempre più nelle nostre paure mai superate.

Canta Brunori Sas in "La Verità": "Te ne sei accorto, sì / Che tutto questo rischio calcolato / Toglie il sapore pure al cioccolato / E non ti basta più / (...)Te ne sei accorto, sì / Che passi tutto il giorno a disegnare / Quella barchetta ferma in mezzo al mare / E non ti butti mai / (...) La verità / È che ti fa paura / L’idea di scomparire". Ed eccoci rappresentati, qui, oggi: terrorizzati dall'idea di scomparire, ed al tempo stesso, paradossalmente, talmente stanchi di tutto ciò che ci fa paura (professori, giudizi degli altri, il futuro, l'amore, la violenza, la precarietà...) da desiderare di smettere di esistere per un po', soltanto per un pochino. Emblematica è una vignetta, reperibile in rete, che recita: "I don't want to die.

I just want to not exist for a while". Siamo intrappolati in noi stessi, siamo talmente distratti da ciò che vogliamo immediatamente avere, talmente pieni di cose, che stiamo perdendo noi stessi, il nostro coraggio, ciò che davvero conta nella nostra vita e per cui valga la pena lottare. Esistenzialismo nichilista in ogni angolo. "vita di M.", slogan che torreggia in ogni dove. Il confine tra bene e male che si sgretola tra le nostre dita. I grandi ideali sostituiti da altri sciapi, da voglie immediate, da lascive licenze.

Vogliamo ancora assaporare il cioccolato della vita. La fiamma del nostro io non è spenta, il mare di fronte a noi aspetta solo il nostro tuffo, impedito dalle nostre paure.

Quest'ultime però non hanno vinto ancora: primo passo per superarle è, invece che scappare da esse, abbracciarle. Accettarle. Comprenderle, che non significa scoprirne necessariamente l'origine: quello forse accadrà, forse no. Comprenderle significa smascherarle, guardarle in faccia, riconoscerle, porsi dinnanzi ad esse, e fidarsi di noi stessi. Riscoprire la nostra forza, metterci realmente in gioco, tuffarci esattamente nel momento in cui non vogliamo farlo; addestrarci al coraggio. Quest'ultimo infatti non nasce dal niente, ma viene alimentato da una sequenza di azioni, da un'abitudine, come ci spiega Aristotele. Entrare in ciò che ci fa paura, in ciò che, metaforicamente, abbiamo paura ci uccida.

Non è facile. E' un andare incontro al proprio boia. C'è chi riesce da solo, chi con l'aiuto di Dio. Ma l'importante è riuscire, vincere, e capire, con le parole di Brunori Sas: "che morire serve / Anche a rinascere".