Il professionista che per ottenere un piano di rateizzazione dei propri debiti tributari si dichiara finanziariamente incapiente, ma in realtà detiene capitali su un conto corrente domiciliato all'estero illecitamente, è perseguibile per il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. A seguito dell'accertamento di codesto fatto, l'amministrazione tributaria è legittimata a confiscare non quanto necessario a coprire i debiti tributari ma, in effetti, l'intero patrimonio oggetto della sottrazione fraudolenta. Questo, in sintesi, quanto stabilito dalla Corte di Cassazione nella sentenza n° 37136 del 26 luglio 2017.

I fatti che hanno portato alla decisione della Cassazione

Un professionista aveva subito un sequestro preventivo di beni da parte dell'Autorità giudiziaria a seguito di indagini effettuate nei suoi confronti. Il professionista aveva quindi fatto istanza di revoca del sequestro al Gip, vedendosela rigettare.

In base alle indagini di polizia giudiziaria, il professionista, dopo aver effettuato la richiesta di rateizzazione dei debiti, non dichiarava all'ufficio tributario competente, in sede di monitoraggio fiscale, l'esistenza della disponibilità su conto estero, sul quale venivano accreditati i proventi della sua attività professionale. Nello stesso tempo, predisponeva il rientro di parte delle somme in modalità non tracciabile.

Di conseguenza, l'istanza di revoca veniva respinta e, conseguentemente, veniva proposto ricorso in Cassazione.

I motivi della sentenza

La sentenza della suprema Corte ha per oggetto la dichiarazione di incapienza finanziaria di un professionista al quale l'Agenzia delle Entrate aveva accertato debiti tributari per un totale di 300 mila euro.

A seguito di indagini approfondite era stata accertata la titolarità in capo al professionista di un conto corrente domiciliato in Albania, su cui lo stesso faceva confluire i proventi della propria attività professionale, e che al momento della scoperta presentava un saldo attivo per circa 800 mila euro. Conto che aveva omesso, volutamente, di dichiarare nell'apposito quadro RW della dichiarazione dei redditi, violando così le disposizioni dell'articolo 4, comma 1, del Dl 167/1990, che, espressamente, impone la dichiarazione.

Inoltre, era stato anche accertato che il ricorrente aveva rimpatriato, in maniera illecita, parte delle somme.

Il Tribunale ha, correttamente, contestato al ricorrente la violazione delle disposizioni dell'articolo 11 del Dlgs 74/2000 che punisce la sottrazione fraudolenta con la reclusione da 6 mesi a 4 anni. Questo perché la ratio della norma è di evitare che il contribuente si sottragga ai suoi impegni nei confronti del Fisco. La norma prevede anche, come circostanza aggravante, il compimento di qualsivoglia atto fraudolento volto a rendere effettivo l'occultamento delle somme o dei beni oggetto del reato.

Di conseguenza, i supremi giudici hanno ritenuto corretta la decisione del Tribunale di grado inferiore, rigettando così il ricorso presentato dal professionista.

Infatti il combinato disposto, secondo i giudici, della presenza all'estero di proventi non dichiarati, e quindi realizzati in nero, con la dichiarazione di incapienza finanziaria da parte del ricorrente e l'accertata esistenza di ingenti debiti tributari, era più che sufficiente a configurare il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte.

Tanto più che, il complesso delle operazioni messe in atto dal professionista aveva comportato una parziale, anche se fittizia, diminuzione della garanzia patrimoniale generica offerta dal patrimonio del debitore fiscale, come statuito dalla stessa Corte di Cassazione nella sentenza 6798/2016.

E proprio in funzione del ripristino di tale garanzia generica patrimoniale, la Corte ha precisato che i beni confiscabili non si limitano alle somme necessarie al pagamento del totale dei debiti tributari accertati, ma a tutti i beni idonei a ripristinare tale garanzia nei confronti dell'amministrazione finanziaria.