"Tutto il male del mondo": è questo quello che racconta il volto tumefatto di Giulio Regeni. Un volto Che tutti abbiamo visto sorridente, nelle foto diffuse mentre lo si cercava, ancora speranzosi di trovarlo in vita, da qualche parte. Rapito, sì, ma in vita. La foto che invece hanno in mano i Regeni mostra un Giulio diverso. Un Giulio la cui unica parte del viso rimasta integra è il naso. Il resto è irriconoscibile, martoriato il corpo, sfigurato il viso.

Il volto c'è, ma non è più quello di un dottorando che amava la vita è i suoi studi sul sindacato.

È il volto di una delle centinaia di vittime che ogni anno viene rapita e torturata in un Egitto instabile, dittatoriale. Il resto è "piccolo, piccolo, piccolo" ha detto ieri durante il suo discorso in Senato Paola Regeni, madre di Giulio. Non vorrebbe farlo, la famiglia Regeni, ma se sarà necessario - ovvero, se le parole non basteranno - è pronta a mostrare quel volto straziato e quel corpo martoriato. Non avrebbero voluto farlo per rispetto di Giulio, dice Paola Regeni, ma se sarà indispensabile, lo faranno.

La rottura del silenzio

Sono rimasti in silenzio per tanto. Sempre in disparte, con la voglia di non essere protagonisti in un dramma più grande di loro. Alla fine, a quasi due mesi dal ritrovamento del corpo del loro figlio, i Regeni rompono il silenzio e lo fanno accompagnati dal loro avvocato, Alessandra Ballerini, e dal presidente della Commissione Diritti Umani, Luigi Manconi.

Niente toni esagerati. Niente di niente. I Regeni hanno parlato con toni pacati.

Le parole, però, sembrano non bastare. Sicuramente non hanno portato chiarezza sulla vicenda. Anzi. Le parole degli Egiziani sembrano aver portato confusione e risposte inadeguate alle domande sollevate dalla morte di un ragazzo innocuo. Desideroso di aiutare l'Egitto con le sue analisi, a partire proprio da quei sindacati messi a tacere dal regime.

Le parole non bastano

Giulio è stato messo a tacere per l'ultima volta, probabilmente mentre cercava di implorare i suoi aguzzini. Ed è probabile che l'abbia fatto in sei lingue: tutte quelle che sapeva parlare a partire dall'arabo fino al tedesco. "Penso - dice Paola Regeni - a come avrà cercato in tutti i modi di far capire chi era.

Magari in arabo, forse peggiorando la situazione". "Poi me lo vedo - continua la madre - con quei suoi occhi, non più quelli della fotografia felice, che dicono: ' Ma cosa sta succedendo? Ma non può essere una cosa che succede a me, ma cosa ho fatto?' ".

Il momento più duro, dice Paola Regeni, è stato probabilmente quello in cui si è reso conto che la porta da cui era entrato in quella stanza delle torture non si sarebbe più riaperta. Perché gli strumenti per capirlo, dice la madre, Giulio ce li aveva.

La famiglia è ferma. Ora non resta che aspettare il prossimo 5 aprile, quando gli investigatori italiani incontreranno quelli egiziani. Quello sarà l'ultimo momento utile per mostrare la voglia di collaborare. Poi i Regeni, con dolore, sfodereranno l'ultima loro arma: le foto di un figlio che non c'è più.