Nubi più nere di quelle cariche di emissioni cancerogene si addensano sul cielo di Taranto: ArcelorMittal, la multinazionale franco-indiana che ha preso in gestione l'ex Ilva nel 2018, sta tentando in ogni modo di recedere dal contratto di affitto dello stabilimento ed il Governo italiano cerca disperatamente un accordo per evitare la chiusura.

In questi giorni, attraverso i propri legali, il colosso dell'acciaio ha replicato ai recenti attacchi dei commissari straordinari dell'ex Ilva, accusando, a sua volta, il governo italiano di aver nascosto il reale stato della fabbrica, bisognosa di molteplici e ingenti interventi di manutenzione; inoltre, ha affermato chiaramente che la mancanza dello "scudo penale" renderebbe impossibile la produzione industriale e l'attuazione del piano ambientale previsto dal contratto.

La risposta dei legali di ArcelorMittal si inserisce all'interno della causa in atto contro il governo italiano, che cercherà la risoluzione della vicenda nell'udienza prevista per il prossimo 7 febbraio, presso il Tribunale di Milano. Ma come si è giunti alla causa civile tra le due parti? Ripercorriamo le tappe principali della vicenda.

Dalla fondazione dell'Italsider alla privatizzazione con il Gruppo Riva

La decisione di costruire un "centro siderurgico italiano" a Taranto risale agli anni '60 del secolo scorso; l'impianto industriale dell'Italsider, inaugurato nel 1965 e nato come la più grande acciaieria d'Europa, conta una superficie di 15 chilometri quadrati. La fabbrica sorse accanto al preesistente quartiere dei Tamburi, che fu appositamente ampliato per alloggiare gli operai e le loro famiglie.

Negli anni '80 lo stabilimento attraversò una prima crisi della produzione e fu successivamente privatizzato, passando nel 1995 dalla gestione statale a quella privata del gruppo Riva e assumendo la denominazione di Ilva Spa.

Il disastro ambientale e la commissarizzazione

Le prime indagini sulla correlazione tra le emissioni prodotte dalla fabbrica e i sempre più numerosi casi di tumore, specie nei quartieri prospicienti gli impianti, risalgono agli anni '80.

Negli anni successivi il legame tra inquinamento ambientale e produzione industriale diventa sempre più evidente.

Nel 2012 il gip Patrizia Todisco firma l'ordinanza di sequestro (senza facoltà d'uso) dell'intera area a caldo (parchi minerali, cokerie, altiforni, acciaierie, area di agglomerazione e di gestione dei materiali ferrosi) per "disastro ambientale" a carico dei vertici aziendali; la perizia su cui si basa tale misura afferma che "le emissioni provenienti dalla fabbrica portano a fenomeni che causano malattie e morte".

Seguono gli arresti di Emilio Riva, presidente dell'Ilva Spa, del figlio Nicola Riva, che ne aveva ereditato la carica aziendale e di altre sei persone, tra dirigenti e responsabili dello stabilimento.

Nel 2015 l'Ilva fu "commissariata", cioè affidata a un collegio di commissari straordinari, cui spettava il difficile compito di "risanare" lo stabilimento dal punto di vista economico e ambientale, per poi rivenderlo al miglior offerente.

L'avvento di ArcelorMittal

A giugno 2017 la multinazionale franco-indiana Arcelor Mittal vinse la gara d'appalto e si aggiudicò la concessione dello stabilimento siderurgico tarantino, prendendolo temporaneamente in affitto, per poi procedere alla sua acquisizione in un secondo momento.

L'anno dopo ArcelorMittal dichiarò di aver accettato tutte le richieste dei commissari straordinari in materia occupazionale e ambientale, avviandosi all'acquisizione dell'impianto industriale; l'allora Ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico Di Maio, tuttavia, bocciò il piano migliorativo presentato da ArcelorMittal, ritenendo "non soddisfacenti le proposte formulate sul piano ambientale".

La causa civile tra ArcelorMittal e il governo Conte

Nel gennaio 2019 la Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato l'Italia per non aver protetto i cittadini che vivono nei quartieri a ridosso dell'impianto siderurgico, accogliendo così i ricorsi presentati da 180 cittadini tarantini nel 2013 e nel 2015.

Nell'ottobre dello scorso anno, un emendamento voluto da 17 parlamentari del M5S fa saltare lo scudo penale, che sarebbe stato reintrodotto dal decreto Salva-Imprese, aprendo una nuova crisi tra lo stabilimento e ArcelorMittal.

Nel novembre 2019, infatti, la multinazionale indiana spedisce una lettera di 6 pagine ai commissari straordinari in cui afferma che "l'eliminazione dell'immunità penale rende impossibile l'attuazione del piano ambientale e impedisce di proseguire l'attività produttiva", ponendo di fatto le basi per una causa volta alla rescissione del contratto. Lo scudo penale costituiva, di fatto, una conditio sine qua non per l'acquisizione dell'impianto industriale tarantino.

Contestualmente, i legali di ArcelorMittal depositano presso il Tribunale di Milano l'atto di citazione per il recesso dal contratto di affitto dell'ex Ilva.

Nel mese di dicembre dello stesso anno viene disposto il sequestro dell'Altoforno 2, in cui perse la vita l'operaio Alessandro Morricella, a causa delle inaccettabili condizioni di sicurezza dell'impianto; il Tribunale del Riesame, tuttavia, accoglie il successivo ricorso, che vieta lo spegnimento dell'altoforno, e fornisce ulteriore tempo ai commissari per la messa in sicurezza degli impianti.

Nei mesi scorsi l'udienza per la causa civile è stata rinviata in un primo momento al 20 dicembre 2019 e successivamente al 7 febbraio 2020, a causa della volontà di trovare un punto d'incontro manifestata dal Governo italiano e dalla stessa multinazionale franco-indiana; tuttavia, gli ultimi sviluppi non lasciano presagire una composizione pacifica della vicenda.

Quali sono le reali intenzioni di ArcelorMittal

Nei giorni scorsi i commissari dell'ex Ilva hanno depositato presso il Tribunale di Milano una memoria in cui si sottolinea l'illegittimità della rescissione del contratto di affitto dello stabilimento e si pone l'accento sul "danno incalcolabile e concretamente irreparabile" che ne deriverebbe, aggiungendo che la multinazionale si sarebbe "più volte ostinatamente rifiutata di permettere sopralluoghi e verifiche della situazione e della produzione di acciaio", mettendo pertanto in dubbio le reali intenzioni di ArcelorMittal verso lo stabilimento.

La risposta dei franco-indiani non si è fatta attendere: i legali della società hanno depositato tre giorni fa la memoria in cui replicano alle accuse "erronee e gratuitamente offensive" dei commissari dell'ex Ilva, negando di aver depredato il magazzino delle materie prime e di aver progressivamente dismesso gli impianti, che sarebbero invece stati adeguati alla crescente concorrenza; è stata negata, inoltre, con veemenza la similitudine con le sorti di altri impianti industriali della stessa multinazionale in altri Paesi (ad es.

in Romania, la cuoi produzione è stata, a detta dei legali di ArcelorMittal, temporaneamente sospesa). Infine, la società si dice disposta a definire le modalità di restituzione della fabbrica tarantina, dal momento che non sussistono più le condizioni necessarie alla produzione.

Insomma, aldilà delle rassicurazioni del Governo e delle trattative intavolate finora, la volontà della multinazionale franco-indiana sembra chiara. Esiste, inoltre, un altro aspetto della questione, che potrebbe rivelarsi illuminante riguardo le reali intenzioni del colosso dell'acciaio: secondo recenti e autorevoli studi il bilancio dello stabilimento sarebbe fallimentare e avrebbe causato la perdita di quasi un miliardo di euro nel solo anno 2019; è stato calcolato che la fabbrica, infatti, produrrebbe utili solo arrivando ad una produzione di 8 milioni di tonnellate l'anno, mentre, allo stato attuale delle cose, essa è ferma a 5,1 milioni di tonnellate l'anno, a causa di una "ridotta domanda di acciaio in Europa" e di "sovraccapacità produttiva globale".

In definitiva, a fronte delle motivazioni "ufficiali", di stampo politico, ci sarebbero delle motivazioni altrettanto (se non maggiormente) stringenti, di natura prettamente economica.

Conte: 'Sarà uno degli stabilimenti più innovativi al mondo'

Il Governo italiano, tuttavia, cerca ancora un accordo: se ArcelorMittal dovesse lasciare "assisteremmo ad una riduzione del Pil di circa 3,5 miliardi di euro". Anche sul fronte occupazionale i dati sono preoccupanti: sono circa 10.700 gli occupati del gruppo, di cui 8.200 a Taranto e 1.273 in cassa integrazione straordinaria da settembre a causa della crisi di mercato.

Ieri, presso l'ambasciata italiana a Londra, è avvenuto un ulteriore incontro tra il Presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte e i vertici di ArcelorMittal, con lo scopo di trovare un accordo in vista dell'inevitabile udienza del 7 febbraio; Conte ha spiegato ai giornalisti che è in corso la definizione di un piano industriale e che "si stanno creando le premesse per un investimento pubblico"; il Presidente del Consiglio ha sottolineato, inoltre, che uno degli obiettivi fondamentali è quello di "preservare il livello occupazionale" e che quello tarantino "sarà uno degli stabilimenti più innovativi al mondo per quanto riguarda la transizione industriale ed energetica".

Inevitabile, quanto chiarificatrice sul destino dell'impianto industriale tarantino e sulle reali intenzioni delle parti, sarà l'udienza del prossimo 7 febbraio, con la quale si spera che questa crisi senza fine possa giungere ad una svolta definitiva.