Si terrà oggi, 13 Dicembre, a Fermo, nella Sala degli Artisti, la commemorazione del grande fotografo e giornalista Mario Dondero, scomparso appena un anno fa all'età di ottantasette anni. Durante la cerimonia, sarà proiettato il documentario "Calma e gesso, in viaggio con Mario Dondero", con la regia di Marco Cruciani, il quale racconta i suoi quasi cinque anni trascorsi insieme all'artista. Dagli innumerevoli viaggi in giro per il mondo, a conferenze, premiazioni fino a semplici spaccati di vita privata, la pellicola è un omaggio appassionato e commosso all’instancabile ricerca del vero di uno dei più grandi maestri dell'arte della fotografia, che ha saputo, nella sua immensa produzione, riproporre in tutta la sua complessità la riflessione -sempre attuale- del prezzo della verità.

La verità può davvero avere un prezzo? Ma soprattutto, la si può raccontare in maniera fedele attraverso la fotografia?

Tutti ricordano la foto di Aylan Kurdi, il bimbo siriano di tre anni ritrovato senza vita l'anno scorso a faccia in giù su una spiaggia di Bodrum. La diatriba si sviluppò da una matrice comune: quella dell’illegittimità di rendere pubblica o meno la fotografia di un cadavere. Con la superficialità tipica di chi si arroga ma il diritto infondato di spersonalizzare l’immagine, rendendola avulsa rispetto alla verità che invece scalpita per raccontare.

Di quella verità ne sapeva qualcosa il fotografo ungherese Robert Capa, con la sua spregiudicata volontà di fare dell’immagine nuda e cruda documento spassionato dei fatti, quelli veri, capovolti prima nella retina dell’uomo e solo dopo nella lente meccanica dell’obiettivo.

Sebbene sia stata a lungo dibattuta l’autenticità del suo miliziano colpito a morte, è il dibattito stesso la prova dell’amor di cronaca che, ad oggi, pare essere sempre più lusingato dai prezzi e mortificato da un’estetica discutibile, raffazzonata e superflua.

Mario Dondero aveva accolto la lezione. Di origini genovesi, ma milanese di nascita, Dondero avrebbe voluto diventare un marinaio, prima di diventare partigiano, poi giornalista per Il Manifesto e infine fotografo ad incarnare una delle personalità più originali del fotoreportage contemporaneo, nonché controverso sostenitore della tecnica in bianco e nero a discapito del colore che “si sa, distrae dal vero”.

Lui che del vero e dell’amor di cronaca aveva fatto non solo lo spunto, ma il leit motiv di una vita condotta sulla falsariga della solitudine, non solo ardentemente voluta, ma addirittura necessaria.

Perché bisogna assaporare il gusto dolceamaro della solitudine, prima che si riesca a maturare coscientemente l’amore per gli altri.

Amare la gente fino al punto di volerla raccontare in tutta la sua straziante umanità nei confini, forse ristretti ma senza dubbio romantici e genuini nella loro essenzialità, dei sei centimetri per quattro del formato analogico.

E fu proprio lui ad affermare, in uno slancio di disarmante lucidità nonostante la lunga malattia lo avesse ormai quasi del tutto sopraffatto, che “è la troppa estetica ad uccidere la verità”. Se la verità ha un prezzo, allora forse è proprio quello di privarla di ogni velleità, di ogni pretesa di avvenenza, del velo di bellezza che ne nasconde inevitabilmente le storture. La consapevolezza che la crudeltà, la violenza, l’efferatezza sono sue costanti e parti inscindibili.

Forse è per questo che di Dondero vale la pena soffermarsi a guardare, allo stesso tempo, una delle foto scattate nel campo degli orrori di Theresienstadt e la foto che ritrae Laura Betti con l’eyeliner nerissimo e calcato con decisione sulle palpebre secondo la moda dell’epoca. La verità, in fin dei conti, un prezzo ce lo ha veramente: quello di accettare, congiuntamente al piacere della seduzione, il compromesso della pena.

Ed è lo scotto che chiunque abbia l’ambizione di raccontarla dovrebbe pagare, senza rifugiarsi sotto il velo di grezze ipocrisie vendute come oro colato. Al miglior offerente, ovviamente.