"Che cosa stavi indossando?" è una domanda liquida, un'insinuazione subdola che, troppe volte, viene rivolta a chi ha subito una violenza sessuale. Come se la gravità di un abuso potesse essere stimata in relazione alla tipologia di vestiario indossato dalla vittima: "se l'è cercata", "camminava sola di notte", "cosa ti aspetti indossando una gonna così corta?", "prima provocano andando in giro mezze nude, poi si lamentano quando vengono stuprate".

Questi sono solo alcuni degli abominevoli miti sullo stupro che divorano la cultura occidentale e che mortificano, giorno dopo giorno, l'umanità e la nostra libertà d'espressione.

Ma la verità è che la scelta di una persona circa il proprio abbigliamento non ha mai il valore di un tacito consenso. D'altra parte non dovrebbe essere difficile comprendere che anche gli abiti sono innocenti, proprio come le vittime, e che nessun capo indossato potrebbe mai implicare la sottesa richiesta di essere stuprati.

Questo lo sa bene Jen Brockman, direttore del Kuy's Sexual Assault Prevention and Education Center e ideatore della mostra "What were you wearing?" (Che cosa stavi indossando?), un'istallazione artistica semplice ma, al contempo, dolorosa e cruda che, da qualche giorno, è stata allestita presso l'Università del Kansas.

Appesi, tra le mura della sala, un paio di jeans, una maglietta gialla, una camicia, un costume da bagno, un tubino rosso, un vestitino rosa da bambina.

Questi sono solo alcuni degli outfits che le vittime indossavano poco prima di essere stuprate. Abiti comuni, dunque, che ognuno di noi possiede nell'armadio e di cui abitualmente ci serviamo per affrontare le nostre giornate.

La mostra, spiega Brockman, intende creare una solida empatia, o perché no, una vera e propria immedesimazione, tra lo spettatore e le storie di violenza: "I visitatori entrando nella galleria vedono gli abiti, leggono le vicende brevemente riassunte sui cartelli esplicativi, e si riflettono in ogni episodio".

Alla vista degli outfits (ricreati dagli studenti dell'Univerisità in base ai racconti delle vittime), infatti, ognuno può dire: "questo vestito è identico a quello che ho nel mio armadio" o, ancora "proprio ieri ho indossato una camicia simile. Solo così, possiamo sperare di abbattere il mito secondo cui è il vestiario a favorire uno stupro o che è possibile eliminare la violenza sessuale semplicemente cambiando i propri vestiti".

Non è l’abbigliamento a provocare un abuso, conclude Brockman, ma solo lo stupratore a fare del male. "Essere in grado di trovare pace per i superstiti e creare un momento di consapevolezza per la comunità: è questo, in definitiva, il vero obiettivo della nostra mostra”.