Si è appena conclusa a Torino, presso lo spazio espositivo del Lingotto, la quinta edizione del festival del giornalismo alimentare. Nella mattinata conclusiva, Sabato 22 febbraio, si è tenuto un interessante panel sul tema il cibo made in Italy coltivato su Marte cui hanno partecipato diverse personalità di spicco del panorama medico e scientifico italiano.

Il panel si è rivelato particolarmente interessante, considerando che il Piemonte, e in particolare Torino, ospita un importante polo aerospaziale che comprende diverse aziende e centri di ricerca che rappresentano un contributo scientifico di comprovata eccellenza internazionale.

Tra queste le aziende intervenute al panel Thales Alenia Space, che ha costruito la maggior parte della stazione spaziale internazionale ed oggi sta lavorando alla messa a punto della nuova stazione cis-lunare e la costola di questa, ALTEC. Quest'ultima si occupa di insegnare agli astronauti ad utilizzare i moduli costruiti da Thales Alea Space ed assiste in tutto e per tutto gli astronauti prima e durante i viaggi spaziali. In questa veste, la psicologa Liliana Ravagnolo, intervenuta al panel, ci ha fornito un interessante spaccato di come si sia sviluppata l’alimentazione in orbita, quali siano gli scenari correnti e le prospettive future per il made in Italy.

Dalle puree ad oggi, storia del cibo spaziale

Il primo pasto consumato nello spazio risale al 12 aprile 1961, giorno dello storico viaggio di Jurij Gagarin intorno alla Terra. Nonostante il viaggio fosse durato solo 88 minuti, il famoso astronauta consumò il primo pasto mai mangiato in orbita: di purea di patate e di carne e crema al cioccolato (tutti contenuti in tubetti spremibili in bocca).

Uno spuntino necessario a dimostrare come la leggenda per cui cibarsi nello spazio portasse al soffocamento fosse assolutamente priva di fondamento.

Al varo del programma americano Mercury (primi anni ’60) e Gemini (che durò fino al 1966) vennero messi a punto dadi di cibo liofilizzato. I dadi, ricchi in nutrienti concentrati, non avevano però un buon sapore ed oltretutto non erano di semplice deglutizione.

Questi programmi prevedevano voli brevi, quindi l’alimentazione seppur “punitiva” non aveva ricadute sulla salute degli astronauti che, però, cominciarono a lamentarsene o cercare di trovare soluzioni alternative. Famosa fu la “marachella” dell’astronauta John Young, che durante la missione Gemini 3 portò nello spazio, di nascosto, un sandwich. Non riuscì però a mangiarlo e si beccò una bella strigliata. Aveva messo infatti a rischio la missione: nello spazio è pericolosissimo usare cibi che possano creare briciole, perché potrebbero infilarsi nella strumentazione e danneggiarla.

L’acqua calda venne introdotta solo nelle missioni Apollo e fu una vera innovazione, perché permetteva la reidratazione degli alimenti migliorandone nettamente il gusto.

Il programma Skylab, del 1973, vide per la prima volta la permanenza di un team di persone per un tempo molto prolungato (tre mesi) in una stazione spaziale. Fu ben chiaro, nella progettazione delle facilities della stazione spaziale, l’importanza di curare bene l’aspetto psicologico legato all'alimentazione degli astronauti. Ispirata chiaramente alla cultura conviviale europea, venne costruita quindi una cucina spaziale, un angolo in cui gli astronauti potevano magiare in comunità. Il momento della condivisione del pasto e del tempo conviviale diventa particolarmente importante nelle missioni spaziali, in quanto permette di sopperire al fatto di vivere in isolamento per lunghi mesi.

Con le missioni sullo Space Shuttle (iniziate nel 1981 e conclusesi nel 2011), la NASA introdusse i prodotti termostabilizzati, ancora oggi i più usati, che permettono una lunga conservazione degli alimenti preferibili rispetto a quelli liofilizzati perché non richiedono l’uso di acqua (risorsa preziosa seppur molto controllata durante le missioni spaziali).

Inoltre, gli astronauti avevano a disposizione frutta e verdura fresca, perché lo shuttle aveva il grandissimo vantaggio di essere caricato con piccole quantità fino a 48 ore dal lancio (cosa che purtroppo oggi non è più possibile per un cambio di sistema di logistica di carico che prevede il carico delle derrate con 3 mesi di anticipo dal lancio del modulo).

Il confort food in orbita

Dall'era Shuttle si è cominciato a suddividere il menu spaziale in due tipologie

  • Standard food – contenente ricette tipiche della cucina internazionale - uova strapazzate - carne al sugo, etc. Si tratta di una selezione particolarmente ricca (400 items), base alimentare per tutti gli astronauti di tutte le missioni, a prescindere dalla loro provenienza geografica o culturale.
  • Bonus food – ogni astronauta ha a disposizione un quantitativo limitato ma sufficiente per la durata della missione di cibi specifici, selezionati in base ai gusti ed alle preferenze personali.Vero e proprio "confort food" che aiuta a sentirsi meno lontani da "casa".

Nel 2011 lo shuttle è stato ritirato ma il sistema standard food / bonus food è stato mantenuto.

Nel frattempo, nelle stazioni spaziali internazionali si è stabilito un traffico costante di astronauti provenienti da diversi paesi, ed ognuno porta con sé un menù tipico del proprio Paese di origine. L’Agenzia Spaziale Europea ha quindi cominciato a fare contratti con cuochi stellati perché mettano a punto bonus food sempre più gratificanti per i lavoratori spaziali. ALTEC si inserisce prontamente in questo scenario fornendo ai cuochi le indicazioni fondamentali per potere rendere le ricette idonee ad essere consumate in ambiente spaziale. Ad esempio, il cibo non deve formare briciole, pericolosissime in orbita perché possono inserirsi in interstizi tecnologici o perfino tra le tute ed i corpi degli astronauti.

Ancora, i cibi non devono essere addizionati di sale (per controllare il senso di sete e di sazietà in orbita).

Con la piattaforma orbitale lunare in approntamento (primo lancio previsto nel 2022), intesa come punto d'appoggio per la nave spaziale Deep Space Transport, per missioni verso la Luna e Marte, si è reso necessario un approccio all'alimentazione spaziale diverso. Inviare cibo dalla Terra, infatti, diventa eccessivamente costoso ed in alcuni casi potrebbe non risultare più pratico, quindi si è da tempo cominciato a lavorare sulla produzione di cibo direttamente nello spazio.

Stampanti 3D e serre orbitali, il futuro è adesso

Come ha spiegato il Vicepresidente di Thales Alenia Space, Walter Cugno, è di matrice italiana lo studio attualmente in corso che ha portato già ad avere piccole serre di vegetali (senza terra ed acqua) in orbita e che sta lavorando per rendere il sistema operativo per una produzione sufficiente ad alimentare in autonomia le basi spaziali.

Attualmente l’azienda torinese ha una serra pilota in Antartide ed i risultati sono molto promettenti. Il futuro prossimo, su cui l’eccellenza italiana sta lavorando, prevede quindi di installare vere e proprie serre orbitali che producano quantità di alimenti sufficienti a mantenere gli astronauti permanenti sulle basi spaziali.

Per coprire il lasso di tempo tra l’arrivo delle prime missioni sulla Luna e su Marte ed il momento in cui le serre saranno in grado di alimentarle, ci si sta avvalendo di macchine a stampaggio 3D in grado di produrre del cibo direttamente nello spazio. Queste macchine consentono di impostare delle ricette, ogni cartuccia contiene un singolo ingrediente. Si seleziona la ricetta e si procede allo stampaggio di questa in strati successivi.

Oggi si sta studiando come potere cuocere la ricetta prodotta. A tale proposito, la dottoressa Ravagnolo ha ricordato che nella sua ultima missione, Luca Parmitano, ha cotto dei biscotti e questo esperimento ha rilevato come, in orbita spaziale i tempi di cottura siano stati di oltre due ore, quando sulla terra bastano 20 minuti.

Coltivare il cibo, così come elaborarlo e cuocerlo, in orbita è un passaggio fondamentale per ridurre al minimo il carico iniziale nella dispensa e rendere più agevoli permanenze lunghe nel tempo. La conquista del Pianeta Rosso passa anche dalla tavola, e parla italiano.